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Mittente:
Bukowski
Re: Cicerone   stampa
Data:
12/05/2002 20.26.40




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Cicerone, Tusculane, II, 35 [la traduzione ? sotto l'originale latino]

35 Interest aliquid inter laborem et dolorem. Sunt finitima omnino, sed tamen differt aliquid. Labor est functio quaedam vel animi vel corporis gravioris operis et muneris, dolor autem motus asper in corpore alienus a sensibus. Haec duo Graeci illi, quorum copiosior est lingua quam nostra, uno nomine appellant. Itaque industrios homines illi studiosos vel potius amantis doloris appellant, nos commodius laboriosos; aliud est enim laborare, aliud dolere. O verborum inops interdum, quibus abundare te semper putas, Graecia! Aliud, inquam, est dolere, aliud laborare. Cum varices secabantur C. Mario, dolebat; cum aestu magno ducebat agmen, laborabat. Est inter haec quaedam tamen similitudo; consuetudo enim laborum perpessionem dolorum efficit faciliorem. 36 Itaque illi qui Graeciae formam rerum publicarum dederunt, corpora iuvenum firmari labore voluerunt. Quod Spartiatae etiam in feminas transtulerunt quae ceteris in urbibus mollissimo cultu "parietum umbris occuluntur". Illi autem voluerunt nihil horum simile esse
apud Lacaenas virgines
Quibus magis palaestra, Eurota, sol, pulvis, labor,
Militia in studio est quam fertilitas barbara.
Ergo his laboriosis exercitationibus et dolor intercurrit non numquam, impelluntur, feriuntur, abiiciuntur, cadunt, et ipse labor quasi callum quoddam obducit dolori.

15 Tra fatica e dolore c'? differenza. Sono due cose molto affini, si, ma qualche differenza c'?. Fatica si ha quando l'anima o il corpo sono impegnati in un compito duro o esercitano una funzione particolarmente gravosa; il dolore invece ? un movimento rude e ripugnante ai sensi che si produce nel corpo. Questi due concetti i Greci, che pure hanno una lingua pi? ricca della nostra, li esprimono con un termine solo. Cosi gli uomini attivi loro li chiamano appassionati, o meglio, amanti del dolore. Meglio noi, che li chiamiamo laboriosi: una cosa ? la fatica, un'altra il dolore. Lo vedi, o Grecia, quanto ? insufficiente a volte la tua lingua, tu che la credi cosi ricca? il dolore e la fatica sono due cose differenti, io dico. Gaio Mario, quando gli tagliavano le vene varicose, provava dolore: faticava invece quando, in mezzo a un caldo soffocante, gli toccava marciare alla testa del suo esercito. Bisogna dire per? che tra questi due concetti esiste una certa affinit?, in quanto l'abitudine alle fatiche facilita la resistenza ai dolori. Quelli che diedero alla Grecia le sue costituzioni politiche appunto per questo vollero che i giovani rafforzassero il fisico con la fatica: anzi, gli Spartani estesero l'usanza anche alle donne, che nelle altre citt? sono avvezze a una vita particolarmente delicata, e ? si celano nell'ombra della casa ?. Essi invece non ammisero niente di simile per ? le fanciulle spartane, che pi? della fecondit? barbarica hanno a cuore la palestra, l'Eurota, il sole, la polvere, la fatica, e il campo ?.
A questi faticosi esercizi spesso si accompagna anche il dolore: e a forza di spinte, ferite, urti e cadute, la fatica le rende insensibili.

Trad. Mondadori

Cicerone, Tusculane, I, 20 sgg. passim [la traduzione ? sotto l'originale latino]

Plato triplicem finxit animum, cuius principatum, id est rationem, in capite sicut in arce posuit, et duas partes parere voluit, iram et cupiditatem, quas locis disclusit: iram in pectore, cupiditatem supter praecordia locavit.
21 Dicaearchus autem in eo sermone, quem Corinthi habitum tribus libris exponit, doctorum hominum disputantium primo libro multos loquentes facit; duobus Pherecratem quendam Phthiotam senem, quem ait a Deucalione ortum, disserentem inducit nihil esse omnino animum, et hoc esse nomen totum inane, frustraque animalia et animantis appellari, neque in homine inesse animum vel animam nec in bestia, vimque omnem eam, qua vel agamus quid vel sentiamus, in omnibus corporibus vivis aequabiliter esse fusam nec separabilem a corpore esse, quippe quae nulla sit, nec sit quicquam nisi corpus unum et simplex, ita figuratum ut temperatione naturae vigeat et sentiat.
22 Aristoteles, longe omnibus Platonem semper excipio praestans et ingenio et diligentia, cum quattuor nota illa genera principiorum esset complexus, e quibus omnia orerentur, quintam quandam naturam censet esse, e qua sit mens.

Platone immagin? l'anima divisa in tre parti: la parte principale, cio? la ragione, la pose nel capo, quasi a occupare il posto di preminenza, e subordinate ad essa concep? le altre due, quella dell'ira e quella del desiderio, che colloc? al loro posto: l'ira nel petto, e il desiderio al disotto dei precordi. Dicearco, riportando in tre libri una conferenza tenuta a Corinto, introduce come personaggi del primo parecchi sapienti in discussione tra loro; negli altri due affida a Ferecrate, un vecchio di Ftia che egli dice discendente di Deucalione, la tesi che segue. L'anima non esiste, ? un nome assolutamente privo di significato; parlare di animali e di esseri animati non vuol dir niente, n? esiste, nell'uomo come nelle bestie, anima o soffio vitale che sia: quella forza che ci permette di agire e di provare sensazioni ? ugualmente diffusa in tutti i corpi viventi, e non ? nient'altro che il corpo, il quale ? uno, semplice, e conformato in modo da avere vigore e sensibilit? per la sua naturale organizzazione.
Aristotele, che ? di gran lunga superiore a tutti gli altri, sempre eccettuato Platone, per genio e per accuratezza di ricerca, pure ammettendo i quattro famosi elementi da cui tutte le cose derivano, ritiene che esista una quinta
essenza di cui ? fatta l'anima.

Trad. Mondadori
  Cicerone
      Re: Cicerone
 

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