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Bukowski
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Data:
15/05/2002 20.11.43




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Livio, Storia di Roma, I, 16 [la traduzione ? sotto il testo latino]


[16] His immortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in terris Romulus fuit. Romana pubes sedato tandem pavore postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis credebat patribus qui proximi steterant sublimem raptum procella, tamen velut orbitatis metu icta maestum aliquamdiu silentium obtinuit. Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae saluere universi Romulum iubent; pacem precibus ecunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem. Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit. Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides. Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamuis magnae rei auctor in contionem prodit. "Romulus" inquit, "Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obuium dedit. Cum perfusus horrore venerabundusque adstitissem petens precibus ut contra intueri fas esset, ""Abi, nuntia"" inquit ""Romanis, caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse."" Haec" inquit "locutus sublimis abiit." Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit, quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide immortalitatis lenitum sit.

16 Portati a termine questi atti destinati alla posterit?, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppi? all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola cos? compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve pi? sulla terra. I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ci? nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la credibilit? contribu? l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la citt? era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilit? nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: ?Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa citt?, ? improvvisamente sceso dal cielo ed ? apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volont? degli d?i celesti ? che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza ? in grado di resistere alle armi romane." Detto questo,? egli concluse, ?? scomparso in cielo.? ? incredibile quanto si prest? fede al racconto di quell'uomo e quanto giov? a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo l'assicurazione della sua immortalit?.

Trad. database progettovidio


Livio, Storia di Roma, I, 3 [la traduzione ? sotto il testo latino]

[3] Nondum maturus imperio Ascanius Aeneae filius erat; tamen id imperium ei ad puberem aetatem incolume mansit; tantisper tutela muliebri?tanta indoles in Lavinia erat?res Latina et regnum avitum paternumque puero stetit. Haud ambigam?quis enim rem tam veterem pro certo adfirmet??hicine fuerit Ascanius an maior quam hic, Creusa matre Ilio incolumi natus comesque inde paternae fugae, quem Iulum eundem Iulia gens auctorem nominis sui nuncupat. Is Ascanius, ubicumque et quacumque matre genitus?certe natum Aenea constat?abundante Lavinii multitudine florentem iam ut tum res erant atque opulentam urbem matri seu novercae relinquit, novam ipse aliam sub Albano monte condidit quae ab situ porrectae in dorso urbis Longa Alba appellata. Inter Lavinium et Albam Longam coloniam deductam triginta ferme interfuere anni. Tantum tamen opes creuerant maxime fusis Etruscis ut ne morte quidem Aeneae nec deinde inter muliebrem tutelam rudimentumque primum puerilis regni movere arma aut Mezentius Etruscique aut ulli alii accolae ausi sint. Pax ita conuenerat ut Etruscis Latinisque fluuius Albula, quem nunc Tiberim vocant, finis esset. Silvius deinde regnat Ascani filius, casu quodam in siluis natus; is Aeneam Silvium creat; is deinde Latinum Silvium. Ab eo coloniae aliquot deductae, Prisci Latini appellati. Mansit Silviis postea omnibus cognomen, qui Albae regnarunt. Latino Alba ortus, Alba Atys, Atye Capys, Capye Capetus, Capeto Tiberinus, qui in traiectu Albulae amnis submersus celebre ad posteros nomen flumini dedit. Agrippa inde Tiberini filius, post Agrippam Romulus Silvius a patre accepto imperio regnat. Aventino fulmine ipse ictus regnum per manus tradidit. Is sepultus in eo colle qui nunc pars Romanae est urbis, cognomen colli fecit. Proca deinde regnat. Is Numitorem atque Amulium procreat, Numitori, qui stirpis maximus erat, regnum vetustum Silviae gentis legat. Plus tamen vis potuit quam voluntas patris aut verecundia aetatis: pulso fratre Amulius regnat. Addit sceleri scelus: stirpem fratris virilem interemit, fratris filiae Reae Silviae per speciem honoris cum Vestalem eam legisset perpetua virginitate spem partus adimit.

3 Ascanio, il figlio di Enea, non era ancora maturo per comandare; tuttavia il potere rimase intatto finch? egli non ebbe raggiunto la pubert?. Nell'intervallo di tempo, lo Stato latino e il regno che il ragazzo aveva ereditato dal padre e dagli avi gli vennero conservati sotto la tutela della madre (tali erano in Lavinia le qualit? caratteriali). Non mi metter? a discutere - e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa cos? antica? - se sia stato proprio questo Ascanio o uno pi? vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga di l?, quello stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome. Questo Ascanio, quali che fossero la madre e la patria d'origine, in ogni caso era figlio di Enea. Dal momento che la popolazione di Lavinio era in eccesso, lasci? alla madre, o alla matrigna, la citt? ricca e fiorente, e per conto suo ne fond? sotto il monte Albano una nuova che, dalla sua posizione allungata nel senso della dorsale montana, fu chiamata Alba Longa. Tra la fondazione di Lavinio e la deduzione della colonia di Alba Longa intercorsero press'a poco trent'anni. Ci? nonostante, specie dopo la sconfitta subita dagli Etruschi, la sua potenza era a tal punto in crescita che, neppure dopo la morte di Enea e in s?guito sotto la reggenza di una donna e i primi passi del regno di un ragazzo, tanto Mesenzio e gli Etruschi quanto nessun'altra popolazione limitrofa osarono intraprendere iniziative militari. Il trattato di pace stabil? che per Etruschi e Latini il confine sarebbe stato rappresentato dal fiume Albula, il Tevere dei giorni nostri.
Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli genera Enea Silvio che a sua volta mette al mondo Latino Silvio. Da quest'ultimo vennero fondate alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi. In s?guito il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa. Da Latino nacque Alba, da Alba Atys, da Atys Capys, da Capys Capeto e da Capeto Tiberino il quale, essendo annegato durante l'attraversamento del fiume Albula, diede a esso il celebre nome passato ai posteri. Quindi regn? il figlio di Tiberino, Agrippa, il quale trasmise il potere al figlio Romolo Silvio. Questi, colpito da un fulmine, tramand? di mano in mano il regno ad Aventino il quale fu sepolto sul colle che oggi ? parte di Roma e che porta il suo nome. Quindi regna Proca. Egli genera Numitore e Amulio. A Numitore, che era il pi? grande, lascia in eredit? l'antico regno della dinastia Silvia. Ma la violenza pot? pi? che la volont? del padre o la deferenza nei confronti della primogenitura: dopo aver estromesso il fratello, sale al trono Amulio. Questi commise un crimine dietro l'altro: i figli maschi del fratello li fece uccidere, mentre a Rea Silvia, la femmina, avendola nominata Vestale (cosa che egli fece passare come un'onorificenza), tolse la speranza di diventare madre condannandola a una verginit? perpetua.

Trad. database progettovidio



Livio, Storia di Roma, XXIX, 8-15 [la traduzione ? sotto il testo latino]

[8] Scipio ut et arcem relictam ab hostibus et uacua uidit castra, uocatos ad contionem Locrenses grauiter ob defectionem incusauit; de auctoribus supplicium sumpsit bonaque eorum alterius factionis principibus ob egregiam fidem aduersus Romanos concessit. publice nec dare nec eripere se quicquam Locrensibus dixit; Romam mitterent legatos; quam senatus aequum censuisset, eam fortunam habituros. illud satis scire, etsi male de populo Romano meriti essent, in meliore statu sub iratis Romanis futuros quam sub amicis Carthaginiensibus fuerint. ipse Pleminio legato praesidioque quod arcem ceperat ad tuendam urbem relicto, cum quibus uenerat copiis Messanam traiecit.
Ita superbe et crudeliter habiti Locrenses ab Carthaginiensibus post defectionem ab Romanis fuerant ut modicas iniurias non aequo modo animo pati sed prope libenti possent; uerum enimuero tantum Pleminius Hamilcarem praesidii praefectum, tantum praesidiarii milites Romani Poenos scelere atque auaritia superauerunt ut non armis sed uitiis uideretur certari. nihil omnium quae inopi inuisas opes potentioris faciunt praetermissum in oppidanos est ab duce aut a militibus; in corpora ipsorum, in liberos, in coniuges infandae contumeliae editae. iam auaritia ne sacrorum quidem spoliatione abstinuit; nec alia modo templa uiolata sed Proserpinae etiam intacti omni aetate thesauri, praeterquam quod a Pyrrho, qui cum magno piaculo sacrilegii sui manubias rettulit, spoliati dicebantur. ergo sicut ante regiae naues laceratae naufragiis nihil in terram integri praeter sacram pecuniam deae quam asportabant extulerant, tum quoque alio genere cladis eadem illa pecunia omnibus contactis ea uiolatione templi furorem obiecit atque inter se ducem in ducem, militem in militem rabie hostili uertit.
[9] Summae rei Pleminius praeerat; militum pars sub eo quam ipse ab Regio adduxerat, pars sub tribunis erat. rapto poculo argenteo ex oppidani domo Plemini miles fugiens sequentibus quorum erat, obuius forte Sergio et Matieno tribunis militum fuit; cui cum iussu tribunorum ademptum poculum esset, iurgium inde et clamor, pugna postremo orta inter Plemini milites tribunorumque, ut suis quisque opportunus aduenerat multitudine simul ac tumultu crescente. uicti Plemini milites cum ad Pleminium cruorem ac uolnera ostentantes non sine uociferatione atque indignatione concurrissent probra in eum ipsum iactata in iurgiis referentes, accensus ira domo sese proripuit uocatosque tribunos nudari ac uirgas expediri iubet. dum spoliandis iis--repugnabant enim militumque fidem implorabant--tempus teritur, repente milites feroces recenti uictoria ex omnibus locis, uelut aduersus hostes ad arma conclamatum esset, concurrerunt; et cum uiolata iam uirgis corpora tribunorum uidissent, tum uero in multo impotentiorem subito rabiem accensi sine respectu non maiestatis modo sed etiam humanitatis, in legatum impetum lictoribus prius indignum in modum mulcatis faciunt. tum ipsum ab suis interceptum et seclusum hostiliter lacerant et prope exsanguem naso auribusque mutilatis relinquunt.
His Messanam nuntiatis Scipio post paucos dies Locros hexere aduectus cum causam Plemini et tribunorum audisset, Pleminio noxa liberato relictoque in eiusdem loci praesidio, tribunis sontibus iudicatis et in uincla coniectis ut Romam ad senatum mitterentur, Messanam atque inde Syracusas rediit. Pleminius impotens irae, neglectam ab Scipione et nimis leuiter latam suam iniuriam ratus nec quemquam aestimare alium eam litem posse nisi qui atrocitatem eius patiendo sensisset, tribunos attrahi ad se iussit, laceratosque omnibus quae pati corpus ullum potest suppliciis interfecit, nec satiatus uiuorum poena insepultos proiecit. simili crudelitate et in Locrensium principes est usus quos ad conquerendas iniurias ad P. Scipionem profectos audiuit; et quae antea per libidinem atque auaritiam foeda exempla in socios ediderat, tunc ab ira multiplicia edere, infamiae atque inuidiae non sibi modo sed etiam imperatori esse.
[10] Iam comitiorum appetebat tempus cum a P. Licinio consule litterae Romam allatae se exercitumque suum graui morbo adflictari, nec sisti potuisse ni eadem uis mali aut grauior etiam in hostes ingruisset; itaque quoniam ipse uenire ad comitia non posset, si ita patribus uideretur, se Q. Caecilium Metellum dictatorem comitiorum causa dicturum. exercitum Q. Caecili dimitti e re publica esse; [nam] neque usum eius ullum in praesentia esse, cum Hannibal iam in hiberna suos receperit, et tanta incesserit in ea castra uis morbi ut nisi mature dimittantur nemo omnium superfuturus uideatur. ea consuli a patribus facienda ut e re publica fideque sua duceret permissa. ciuitatem eo tempore repens religio inuaserat inuento carmine in libris Sibyllinis propter crebrius eo anno de caelo lapidatum inspectis, quandoque hostis alienigena terrae Italiae bellum intulisset eum pelli Italia uincique posse si mater Idaea a Pessinunte Romam aduecta foret. id carmen ab decemuiris inuentum eo magis patres mouit quod et legati qui donum Delphos portauerant referebant et sacrificantibus ipsis Pythio Apollini omnia laeta fuisse et responsum oraculo editum maiorem multo uictoriam quam cuius ex spoliis dona portarent adesse populo Romano. in eiusdem spei summam conferebant P. Scipionis uelut praesagientem animum de fine belli quod depoposcisset prouinciam Africam. itaque quo maturius fatis ominibus oraculisque portendentis sese uictoriae compotes fierent, id cogitare atque agitare quae ratio transportandae Romam deae esset.
[11] Nullasdum in Asia socias ciuitates habebat populus Romanus; tamen memores Aesculapium quoque ex Graecia quondam hauddum ullo foedere sociata ualetudinis populi causa arcessitum, tunc iam cum Attalo rege propter commune aduersus Philippum bellum coeptam amicitiam esse --facturum eum quae posset populi Romani causa--, legatos ad eum decernunt M. Ualerium Laeuinum qui bis consul fuerat ac res in Graecia gesserat, M. Caecilium Metellum praetorium, Ser. Sulpicium Galbam aedilicium, duos quaestorios Cn. Tremelium Flaccum et M. Ualerium Faltonem. iis quinque naues quinqueremes ut ex dignitate populi Romani adirent eas terras ad quas concilianda maiestas nomini Romano esset decernunt. legati Asiam petentes protinus Delphos cum escendissent, oraculum adierunt consulentes ad quod negotium domo missi essent perficiendi eius quam sibi spem populoque Romano portenderet. responsum esse ferunt per Attalum regem compotes eius fore quod peterent: cum Romam deam deuexissent, tum curarent ut eam qui uir optimus Romae esset hospitio exciperet. Pergamum ad regem uenerunt. is legatos comiter acceptos Pessinuntem in Phrygiam deduxit sacrumque iis lapidem quam matrem deum esse incolae dicebant tradidit ac deportare Romam iussit. praemissus ab legatis M. Ualerius Falto nuntiauit deam apportari; quaerendum uirum optimum in ciuitate esse qui eam rite hospitio acciperet. Q. Caecilius Metellus dictator ab consule in Bruttiis comitiorum causa dictus exercitusque eius dimissus, magister equitum L. Ueturius Philo. comitia per dictatorem habita. consules facti M. Cornelius Cethegus P. Sempronius Tuditanus absens cum prouinciam Graeciam haberet. praetores inde creati Ti. Claudius Nero M. Marcius Ralla L. Scribonius Libo M. Pomponius Matho. comitiis peractis dictator sese magistratu abdicauit.
Ludi Romani ter, plebeii septiens instaurati. curules erant aediles Cn. et L. Cornelii Lentuli. Lucius Hispaniam prouinciam habebat; absens creatus absens eum honorem gessit. Ti. Claudius Asellus et M. Iunius Pennus plebeii aediles fuerunt. aedem Uirtutis eo anno ad portam Capenam M. Marcellus dedicauit septimo decimo anno postquam a patre eius primo consulatu uota in Gallia ad Clastidium fuerat. et flamen Martialis eo anno est mortuus M. Aemilius Regillus.
[12] Neglectae eo biennio res in Graecia erant. itaque Philippus Aetolos desertos ab Romanis, cui uni fidebant auxilio, quibus uoluit condicionibus ad petendam et paciscendam subegit pacem. quod nisi omni ui perficere maturasset, bellantem eum cum Aetolis P. Sempronius proconsul, successor imperii missus Sulpicio cum decem milibus peditum et mille equitibus et triginta quinque rostratis nauibus, haud paruum momentum ad opem ferendam sociis, oppressisset. uixdum pace facta nuntius regi uenit Romanos Dyrrachium uenisse Parthinosque et propinquas alias gentes motas esse ad spem nouandi res Dimallumque oppugnari. eo se auerterant Romani ab Aetolorum quo missi erant auxilio, irati quod sine auctoritate sua aduersus foedus cum rege pacem fecissent. ea cum audisset Philippus ne qui motus maior in finitimis gentibus populisque oreretur magnis itineribus Apolloniam contendit, quo Sempronius se receperat misso Laetorio legato cum parte copiarum et quindecim nauibus in Aetoliam ad uisendas res pacemque si posset turbandam. Philippus agros Apolloniatium uastauit et ad urbem admotis copiis potestatem pugnae Romano fecit; quem postquam quietum muros tantummodo tueri uidit, nec satis fidens uiribus ut urbem oppugnaret et cum Romanis quoque, sicut cum Aetolis, cupiens pacem si posset, si minus, indutias facere, nihil ultra inritatis nouo certamine odiis in regnum se recepit.
Per idem tempus taedio diutini belli Epirotae temptata prius Romanorum uoluntate legatos de pace communi ad Philippum misere, satis confidere conuenturam eam adfirmantes si ad conloquium cum P. Sempronio imperatore Romano uenisset. facile impetratum--neque enim ne ipsius quidem regis abhorrebat animus--ut in Epirum transiret. Phoenice urbs est Epiri; ibi prius conlocutus rex cum Aeropo et Derda et Philippo, Epirotarum praetoribus, postea cum P. Sempronio congreditur. adfuit conloquio Amynander Athamanum rex, et magistratus alii Epirotarum et Acarnanum. primus Philippus praetor uerba facit et petit simul ab rege et ab imperatore Romano ut finem belli facerent darentque eam Epirotis ueniam. P. Sempronius condiciones pacis dixit ut Parthini et Dimallum et Bargullum et Eugenium Romanorum essent, Atintania, si missis Romam legatis ab senatu impetrasset, ut Macedoniae accederet. in eas condiciones cum pax conueniret, ab rege foederi adscripti Prusia Bithyniae rex, Achaei Boeoti Thessali Acarnanes Epirotae: ab Romanis Ilienses, Attalus rex, Pleuratus, Nabis Lacedaemoniorum tyrannus, Elei Messenii Athenienses. haec conscripta consignataque sunt, et in duos menses indutiae factae donec Romam mitterentur legati ut populus in has condiciones pacem iuberet; iusseruntque omnes tribus, quia uerso in Africam bello omnibus aliis in praesentia leuari bellis uolebant. P. Sempronius pace facta ad consulatum Romam decessit.
[13] M. Cornelio P. Sempronio consulibus--quintus decimus is annus belli Punici erat--prouinciae Cornelio Etruria cum uetere exercitu, Sempronio Bruttii ut nouas scriberet legiones decretae: praetoribus M. Marcio urbana, L. Scribonio Liboni peregrina et eidem Gallia, M. Pomponio Mathoni Sicilia, Ti. Claudio Neroni Sardinia euenit. P. Scipioni cum eo exercitu, cum ea classe quam habebat, prorogatum in annum imperium est; item P. Licinio ut Bruttios duabus legionibus obtineret quoad eum in prouincia cum imperio morari consuli e re publica uisum esset. et M. Liuio et Sp. Lucretio cum binis legionibus quibus aduersus Magonem Galliae praesidio fuissent prorogatum imperium est, et Cn. Octauio ut cum Sardiniam legionemque Ti. Claudio tradidisset ipse nauibus longis quadraginta maritimam oram, quibus finibus senatus censuisset, tutaretur. M. Pomponio praetori in Sicilia Cannensis exercitus duae legiones decretae; T. Quinctius Tarentum, C. Hostilius Tubulus Capuam pro praetoribus, sicut priore anno, cum uetere uterque praesidio obtinerent. de Hispaniae imperio, quos in eam prouinciam duos pro consulibus mitti placeret latum ad populum est. omnes tribus eosdem L. Cornelium Lentulum et L. Manlium Acidinum pro consulibus, sicut priore anno tenuissent, obtinere eas prouincias iusserunt. consules dilectum habere instituerunt et ad nouas scribendas in Bruttios legiones et in ceterorum--ita enim iussi ab senatu erant--exercituum supplementum.
[14] Quamquam nondum aperte Africa prouincia decreta erat occultantibus id, credo, patribus ne praesciscerent Carthaginienses, tamen in eam spem erecta ciuitas erat in Africa eo anno bellatum iri finemque bello Punico adesse. impleuerat ea res superstitionum animos, pronique et ad nuntianda et ad credenda prodigia erant; eo plura uolgabantur: duos soles uisos, et nocte interluxisse, et facem Setiae ab ortu solis ad occidentem porrigi uisam: Tarracinae portam, Anagniae et portam et multis locis murum de caelo tactum: in aede Iunonis Sospitae Lanuui cum horrendo fragore strepitum editum. eorum procurandorum causa diem unum supplicatio fuit, et nouendiale sacrum quod de caelo lapidatum esset factum. eo accessit consultatio de matre Idaea accipienda, quam, praeterquam quod M. Ualerius unus ex legatis praegressus actutum in Italia fore nuntiauerat, recens nuntius aderat Tarracinae iam esse. haud paruae rei iudicium senatum tenebat qui uir optimus in ciuitate esset; ueram certe uictoriam eius rei sibi quisque mallet quam ulla imperia honoresue suffragio seu patrum seu plebis delatos. P. Scipionem Cn. filium eius qui in Hispania ceciderat, adulescentem nondum quaestorium, iudicauerunt in tota ciuitate uirum bonorum optimum esse.--id quibus uirtutibus inducti ita iudicarint, sicut traditum a proximis memoriae temporum illorum scriptoribus libens posteris traderem, ita meas opiniones coniectando rem uetustate obrutam non interponam. P. Cornelius cum omnibus matronis Ostiam obuiam ire deae iussus; isque eam de naue acciperet et in terram elatam traderet ferendam matronis. postquam nauis ad ostium amnis Tiberini accessit, sicut erat iussus, in salum naue euectus ab sacerdotibus deam accepit extulitque in terram. matronae primores ciuitatis, inter quas unius Claudiae Quintae insigne est nomen, accepere; cui dubia, ut traditur, antea fama clariorem ad posteros tam religioso ministerio pudicitiam fecit. eae per manus, succedentes deinde aliae aliis, omni obuiam effusa ciuitate, turibulis ante ianuas positis qua praeferebatur atque accenso ture precantibus ut uolens propitiaque urbem Romanam iniret, in aedem Uictoriae quae est in Palatio pertulere deam pridie idus Apriles; isque dies festus fuit. populus frequens dona deae in Palatium tulit, lectisterniumque et ludi fuere, Megalesia appellata.
[15] Cum de supplemento legionum quae in prouinciis erant ageretur, tempus esse a quibusdam senatoribus subiectum est quae dubiis in rebus utcumque tolerata essent, ea dempto iam tandem deum benignitate metu non ultra pati. erectis exspectatione patribus subiecerunt colonias Latinas duodecim quae Q. Fabio et Q. Fuluio consulibus abnuissent milites dare, eas annum iam ferme sextum uacationem militiae quasi honoris et beneficii causa habere cum interim boni obedientesque socii pro fide atque obsequio in populum Romanum continuis omnium annorum dilectibus exhausti essent. sub hanc uocem non memoria magis patribus renouata rei prope iam oblitteratae quam ira inritata est. itaque nihil prius referre consules passi, decreuerunt ut consules magistratus denosque principes Nepete Sutrio Ardea Calibus Alba Carseolis Sora Suessa Setia Circeiis Narnia Interamna--hae namque coloniae in ea causa erant--Romam excirent; iis imperarent, quantum quaeque earum coloniarum militum plurimum dedisset populo Romano ex quo hostes in Italia essent, duplicatum eius summae numerum peditum daret et equites centenos uicenos; si qua eum numerum equitum explere non posset pro equite uno tres pedites liceret dare; pedites equitesque quam locupletissimi legerentur mitterenturque ubicumque extra Italiam supplemento opus esset. si qui ex iis recusarent, retineri eius coloniae magistratus legatosque placere neque si postularent senatum dari priusquam imperata fecissent. stipendium praeterea iis coloniis in milia aeris asses singulos imperari exigique quotannis, censumque in iis coloniis agi ex formula ab Romanis censoribus data; dari autem placere eandem quam populo Romano; deferrique Romam ab iuratis censoribus coloniarum priusquam magistratu abirent. ex hoc senatus consulto accitis Romam magistratibus primoribusque earum coloniarum consules cum milites stipendiumque imperassent, alii aliis magis recusare ac reclamare: negare tantum militum effici posse: uix si simplum ex formula imperetur enisuros: orare atque obsecrare ut sibi senatum adire ac deprecari liceret: nihil se quare perire merito deberent admisisse; sed si pereundum etiam foret, neque suum delictum neque iram populi Romani ut plus militum darent quam haberent posse efficere. consules obstinati legatos manere Romae iubent, magistratus ire domum ad dilectus habendos: nisi summa militum quae imperata esset Romam adducta neminem iis senatum daturum. ita praecisa spe senatum adeundi deprecandique dilectus in iis duodecim coloniis per longam uacationem numero iuniorum aucto haud difficulter est perfectus.

8. Scipione, quando vide la rocca abbandonata dai nemici e gli accampamenti vuoti, convoc? l'assemblea dei Locresi rimproverandoli aspramente per la loro defezione; giustizi? i promotori della sommossa e regal? i loro beni agli esponenti dell'altro partito in riconoscimento della loro straordinaria lealt? verso i Romani. Per quanto riguardava le istituzioni pubbliche egli non voleva n? concedere n? sottrarre qualcosa ai Locresi; mandassero un'ambasceria a Roma: la loro sorte sarebbe stata quella che il senato avrebbe giudicato equo attribuire. Di una cosa era certo: anche se si erano male comportati nei riguardi del popolo romano, sarebbero sempre stati meglio sotto i Romani animati da sentimenti di rivalsa che sotto i Cartaginesi in: vesti di amici. Lasci? il luogotenente Pleminio con il contingente che aveva occupato la rocca a difesa delila citt? e ripass? a Messina assieme alla truppe con le quali era venuto. I Locresi, dopo la defezione dai Romani, erano stati trattati dai Cartaginesi con tanta arroganza e crudelt?, che erano addirittura disposti ad accettare qualche ritorsione non solo con rassegnazione ma perfino volentieri. E tuttavia a tal punto, in scelleratezza e avidit?, Pleminio super? il comandante della guarnigione cartaginese Amilcare, a tal punto gli uomini del presidio romano superarono i Punici, che sembrava si fosse aperta una competizione non sul piano militare ma su quello della libidine. Nessuno dei soprusi che rendono odioso al debole il potere di chi ? pi? forte fu risparmiato ai cittadini di Locri dal comandante o dai suoi soldati: sulle persone dei cittadini, dei loro figli, delle loro mogli fu consumato ogni genere di infamia e di scelleratezza. E l'avidit? non si trattenne nemmeno davanti alla profanazione degli oggetti sacri: non solo fu saccheggiato ogni altro tempio, ma anche il tesoro di Proserpina, che era sempre stato rispettato, fuorch?, come si diceva, da Pirro, il quale, dopo la violazione, fu costretto a riportare indietro, con una espiazione totale, il bottino frutto del suo sacrilegio. E cos? come allora le navi del re, in grave avaria per le tempeste, non riuscirono a portare a terra nulla di integro oltre al tesoro della dea che era stato saccheggiato, anche allora, seppur con una sciagura che si presentava in altro modo, quello stesso tesoro rese pazzi tutti coloro che si erano macchiati della violazione del tempio, facendo rivolgere con rabbiosa inimicizia un comandante contro l'altro, un soldato contro l'altro.

9. Il comando supremo era di Pleminio, ma solo una parte dei soldati (quelli che si era portato da Reggio) obbediva a lui, mentre gli altri obbedivano ai tribuni. Un giorno che un soldato di Pleminio ebbe a rubare dalla casa di un cittadino di Locri una tazza d'argento, questi si imbatt? per caso, mentre fuggiva inseguito dai proprietari, nei tribuni milItari Sergio e Matieno; per ordine dei tribuni al soldato fu strappata la tazza e ne nacque, tra i soldati di Pleminio e i tribuni, dapprima un diverbio, poi una gran confusione e infine uno scontro che, col crescere della folla e del tumulto, diventava sempre pi? generale mano a mano che intervenivano i compagni degli uni e degli altri. Ebbero la peggio i soldati di Pleminio che corsero dal comandante urlando tutta la loro rabbia e mostrando le ferite sanguinanti; gli riferirono anche le offese lanciate contro lui stesso durante la rissa e Pleminio, in una vampata d'ira, si gett? fuori dalla sua abitazione convocando i tribuni e ordinando che fossero denudati e presi a vergate. Mentre venivano spogliati, pass? qualche istante perch? essi opponevano resistenza e facevano appello alla lealt? dei soldati: all'improvviso da ogni parte accorsero, ancora eccitati per la vittoria appena ottenuta, i soldati come se qualcuno avesse dato l'allarme per un attacco nemico. Quando videro che i corpi dei tribuni erano gi? stati violati dalle nerbate, accesi da una improvvisa e ancora pi? furibonda rabbia, senza pi? alcun riguardo non solo dell'autorit? ma anche dell'umanit?, aggredirono il luogotenente dopo aver malmenato anche i littori in modo indegno: poi strapparono e separarono il legato dai suoi, infierendo con accanimento su di lui, lasciandolo quasi senza vita con il naso e le orecchie mutilati. Pochi giorni dopo che si era avuta notizia di questi fatti a Messina, Scipione raggiunse Locri su una exere e ascolt? le motivazioni di Pleminio e dei tribuni: Pleminio fu giudicato innocente e lasciato di guarnigione di quella stessa citt?, mentre i tribuni furono dichiarati colpevoli e gettati in catene, in attesa di mandarli dal senato a Roma. Scipione torn? quindi a Messina e di l? si rec? a Siracusa. Pleminio, furibondo d'ira, pensando che Scipione non avesse dato tutto il peso che meritava al torto da lui subito e lo avesse anzi considerato un fatto irrilevante, convinto che nessun altro potesse essere giudice di quella controversia se non colui che ne aveva sentito e subito la crudelt?, fece condurre i tribuni davanti a s? e dopo averli sottoposti a tutte le torture che un corpo umano pu? sopportare li uccise e, non pago di quanto aveva fatto loro patire da vivi, fece abbandonare i loro corpi insepolti. Si comport? in modo tanto crudele anche verso i maggiorenti locresi di cui aveva sentito che si erano recati da Scipione per lamentarsi dei soprusi subiti. E se prima era stato crudele e avido nel commettere infamie contro gli alleati, poi ne commise in numero molto maggiore spinto dal suo rancore, creando vergogna e risentimento non solo nei propri riguardi ma anche verso Scipione.

10. Era ormai quasi tempo dei comizi e il console Publio Licinio invi? delle lettere a Roma in cui diceva che lui personalmente e il suo esercito erano afflitti da una grave pestilenza e che non si sarebbero potute mantenere le posizioni se un male di gravit? pari o maggiore non si fosse abbattuto anche sui nemici; poich? dunque non poteva venire di persona a tenere i comizi, se i senatori condividevano il suo parere, egli avrebbe nominato dittatore Quinto Cecilio Metello con l'incarico di presiedere i comizi: era interesse pubblico che l'esercito di Quinto Cecilio fosse congedato dato che in quel momento non era di nessuna utilit? perch? Annibale aveva ritirato i suoi negli accampamenti invernali; tanto violentemente, poi, la pestilenza imperversava in quel campo che, se i soldati non fossero stati congedati rapidamente, nessuno di loro, a quanto si poteva giudicare, sarebbe sopravvissuto. I senatori concessero al console di agire in tal senso se, secondo il suo discernimento, egli riteneva ci? utile alla repubblica. In quel periodo in citt? si era diffuso, tutto d'un tratto, uno scrupolo religIoso, perch? si era trovato nei libri sibillini, consultati per la maggior frequenza che aveva caratterizzato quell'anno la caduta di pietre dal cielo, una profezia: ogni volta che un nemico straniero avesse portato la guerra sulla terra d'Italia, esso poteva essere scacciato e sconfitto, se fosse stata portata a Roma da Pessinunte, la Madre Idea. Quel vaticinio era stato trovato dai decemviri e impression? in misura an- cora maggiore i senatori in quanto anche i legati che avevano recato l'offerta votiva a Delfi riferivano che, durante il sacrificio a Apollo Pizio, erano risultate favorevoli le viscere; e come se non bastasse, l'oracolo aveva dato un responso secondo il quale era vicina per il popolo romano una vittoria molto maggiore di quella dal cui bottino avevano tratto quel dono votivo. A coronare quel clima di speranza, si aggiungeva quella sorta di presagio di Scipione circa la fine della guerra quando aveva chiesto che gli fosse affidata l'Africa come zona di operazioni. Cos?, volendo conseguire pi? rapidamente quella vittoria che era annunciata dai fati, dagli auspici e dagli oracoli, si formulavano le pi? diverse ipo tesi sul modo migliore di portare la dea a Roma.

11 Il popolo romano non aveva ancora in Asia alcuna citt? alleata. E tuttavia era ben presente alla memoria che anche tempo addietro per ottenere la salute della popolazione, Esculapio era stato fatto venire dalla Grecia non ancora alleata; in questo periodo, poi, a causa della comune guerra contro Filippo, si era inaugurato un rapporto di amicizia con il re Attalo il quale certo si sarebbe adoperato in ogni modo possibile a favore del popolo romano e furono dunque scelti degli ambasciatori da inviare a lui: Marco Valerio Levino, che era stato due volte console e che aveva partecipato alla campagna militare di Grecia, l'expretore Marco Cecilio Metello, l'exedile Servio Sulpicio Galba, due exquestori, Gneo Tremellio FIacco e Marco Valerio Faltone. Furono loro assegnate cinque quinqueremi perch? visitassero quelle regioni, presso le quali si doveva creare prestigio al nome di Roma, proponendo un'immagine adeguata alla dignit? del popolo romano. Gli ambasciatori, durante il loro viaggio verso l'AsIa, fecero tappa a Delfi, per visitare l'oracolo e chiedergli quanta speranza desse loro e al popolo romano per il compimento della missione per cui erano stati inviati dalla loro patria. A quanto si dice, fu loro risposto che avrebbero ottenuto quanto desideravano grazie all'intervento del re Attalo; una volta portata la dea a Roma, dovevano prendersi cura che ad accoglierla ospitalmente vi fosse il miglior uomo di Roma. Arrivarono a Pergamo, presso il re, il quale accolse cordialmente i legati accompagnandoli a Pessinunte in Frigia dove consegn? loro la pietra sacra che, come dicevano gli abitanti del luogo, era la madre degli d?i, autorizzandoli a portarla a Roma. I legati mandarono avanti Marco Valerio Faltone il quale annunci? che la dea stava giungendo e che si doveva cercare in citt? l'uomo migliore per accoglierla secondo i solenni riti dell'ospitalit?. Il console nomin? dittatore Quinto Cecilio Metello che si trovava nel Bruzio con l'incarico di tenere i comizi; il suo esercito fu congedato e Lucio Veturio Filone fu nominato maestro della cavalleria. Il dittatore presiedette i comizi da cui risultarono eletti consoli Marco Comelio Cetego e Publio Sempronio Thditano, che era assente perch? gli era stata assegnata la Grecia come teatro d'azione. Furono poi eletti pretori Tito Claudio Nerone, Marco Marcio Ralla, Lucio Scribonio Libone, Marco Pomponio Matone. Conclusi i comizi, il dittatore depose la magistratura. I giochi Romani furono rinnovati tre volte, sette quelli plebei. Erano edili curoli Gneo e Lucio Comelio Lentulo: Lucio aveva in assegnazione la Spagna come zona di operazioni; fu eletto mentre era lontano e da lontano esercit? quella carica. Tiberio Claudio Asello e Marco Giunio Penno furono gli edili plebei. In quell'anno Marco Marcello consacr? il tempio al Valore presso la porta Capena, sedici anni dopo che il padre ne aveva fatto voto a Clastidio in Gallia, durante il suo primo consolato. Sempre in quell'anno mor? anche Marco Emilio Regillo, flamine di Marte.

12. In quei due anni le faccende della Grecia erano state trascurate e cos? Filippo costrinse gli Etoli, privi dell'aiuto romano - solo in questo essi riponevano la loro fiducia -, a chiedere e a stipulare una pace alle condizioni da lui stabilite. Se non avesse affrettato con ogni mezzo la conclusione di questa vicenda, sarebbe stato sopraffatto, mentre era impegnato nel conflitto contro gli Etoli, dal proconsole Publio Sempronio, inviato come successore di Sulpicio con diecimila fanti, mille cavalieri e trentacinque navi rostrate, un contingente abbastanza considerevole visto che si doveva correre in aiuto ad un popolo alleato. La pace era appena stata conclusa, quando al re fu annunciato che i Romani erano sbarcati a Durazzo, che i Partini e le altre popolazioni confinanti si erano messi in movimento nella prospettiva di rivolgimenti politici e che Dimallo era attaccata. L? si erano diretti i Romani tralasciando di portare soccorso agli Etoli, anche se per questo erano stati mandati, perch? erano pieni di risentimento per la pace da loro stipulata col re senza autorizzazione e contro il trattato. Filippo, avendo udito queste cose, per evitare che si manifestassero movimenti pi? volenti tra genti e popolazioni confinanti, si diresse a marce forzate su Apollonia,14 dove si era ritirato Sempronio, dopo aver mandato il luogotenente Letorio con parte delle truppe e quindici navi in Etolia per apprendere direttamente come stavano le cose e per vedere se era possibile mettere in crisi la pace. Filippo devast? il territorio degli Apolloniati e, avvicinate le sue truppe alla citt?, sfid? i Romani a battaglia; tuttavia, quando vide che se ne rimanevano tranquilli limitandosi a difendere le mura, non avendo troppa fiducia che le sue truppe fossero sufficienti ad assalire la citt? e desiderando fare la pace con i Romani cos? come l'aveva fatta con gli Etoli (se era possibile, e se non era possibile almeno una tregua), senza pi? esasperare i motivi di contrasto con nuovi atti di ostilit?, si ritir? nel suo regno. In quello stesso periodo, stanchi della guerra, gli Epiroti, dopo aver saggiato le intenzioni dei Romani, mandarono a Filippo degli ambasciatori per trattare una pace generale, affermando che erano abbastanza fiduciosi di poterla concludere se egli fosse venuto a parlare col comandante romano Publio Sempronio. Fu facile ottenere che il re si recasse nell'Epiro e anche il suo atteggiamento sembrava di disponibilit?. Fenice ? una citt? dell'Epiro dove il re ebbe prima colloqui con Eropo, con Derda e con Filippo, capi degli Epiroti e si incontr? poi con Publio Sempronio. Erano presenti al colloquio Aminandro, re degli Atamani e altri magIstrati degli Epiroti e degli Acarnani. Il primo a parlare fu Filippo, capo degli Epiroti, e chiese contemporaneamente al re e al generale romano di porre fine alla guerra e di fare questa concessione agli Epiroti. Publio Sempronio dett? le condizioni di pace: i Partini, Dimallo, Bargullo ed Ellgenio spettavano ai Romani; l'Atintania sarebbe passata alla Macedonia, se Filippo avesse ottenuto ci? dal senato romano cui doveva inviare degli ambasciatori. A queste condizioni fu approvata la pace e il re fece comprendere nel trattato anche Prusia re della Bitinia, gli Achei, i Beoti, i Tessalici, gli Acarnani, gli Epiroti; i Romani vi fecero includere gli Iliensi, il re Attalo, Pleurato, il tiranno spartano Nabide, gli Elei, i Messeni, gli Ateniesi.
Queste clausole furono messe per iscritto e controfirmate; fu indetta una tregua di due mesi, il tempo di mandare a Roma degli emissari perch? il popolo ratificasse la pace a queste condizioni. Tutte le trib? approvarono la pace perch?, portata la guerra in Africa, volevano essere sollevati in quel momento da ogni altro impegno bellico. Publio Sempronio, conclusa la pace, si rec? a Roma per assumere il consolato.

13. Durante il consolato di Marco Cornelio e Publio Sempronio - era quello il quindicesimo anno della guerra punica - a Cornelio fu assegnata come zona di operazioni e con il vecchio esercito l'Etruria, a Sempronio il Bruzio con l'incarico di arruolare nuove legioni. Quanto ai pretori, Marco Marcio ebbe la pretura urbana, Lucio Scribonio Libone la giurisdizione delle cause con gli stranieri e anche la Gallia; a Marco Pomponio Matone tocc? in sorte la Sicilia, a Tibero Claudio Nerone la Sardegna. A Publio Scipione fu prorogato il comando per un anno con l'esercito e con la flotta che gi? erano ai suoi ordini; ugualmente il comando fu prorogato per un anno a Publio Licinio con l'incarico di controllare il territorio dei Bruzi con due legioni fino a quando il console avesse giudicato opportuno che egli si trattenesse, con il comando e nell'interesse della repubblica, in quella zona di operazioni; anche a Marco Livio e a Spurio Lucrezio fu prorogato il comando delle legioni - due per ciascuno - con cui avevano presidiato la Gallia contro Magone; fu prorogato il comando anche a Gneo Ottavio il quale, dopo aver consegnato la Sardegna e la legione a Tiberio Claudio, doveva difendere il litorale con quaranta navi da guerra nel raggio di azione stabilito dal senato; in Sicilia le due legioni dell'esercito reduce da Canne furono assegnate al pretore Marco Pomponio; Tito Quinzio avrebbe dovuto presidiare Taranto e Gaio Ostilio Thbulo Capua, entrambi in qualit? di propretori, come l'anno precedente, avvalendosi, l'uno e l'altro, della vecchia guarnigione. Quanto al comando della Spagna fu presentata al popolo una proposta di legge per deliberare quali due proconsoli si dovessero mandare in quella zona di operazioni: le trib? decretarono all'unanimit? che, come l'anno precedente, avessero ancora il comando di quella zona di operazioni, in qualit? di proconsoli, Lucio Cornelio Lentulo e Lucio Manlio Acidino. I consoli decisero di indire una leva sia per arruolare nuove legioni per il Bruzio sia per avere a disposizione rinforzi per gli altri eserciti: queste erano le disposizioni che avevano ricevuto dal senato.

14. L'assegnazione ufficiale dell' Africa come zona di operazioni non era ancora avvenuta per la volont? dei senatori, io credo, di volerla tenere nascosta e impedire che i Cartaginesi ne fossero informati in anticipo, e tuttaVIa era ormai vivissima in tutti i cittadini la speranza che in quell'anno si sarebbe andati a combattere in Africa e che era ormai vicina la conclusione della guerra punica. Questa attesa aveva diffuso in tutti gli animi atteggiamenti superstiziosi e ognuno era molto disponibile ad annunciare prodigi e anche a prestarvi fede: era questo il motivo per cui in giro se ne raccontavano molti. Erano stati visti due soli e c'era stata una gran luce durante la notte; a Setia una meteora aveva attraversato il cielo da oriente a occidente; dei fulmini erano caduti su una porta a Terracina e, ad Anagni, oltre che su una porta, anche sulle mura e in pi? punti diversi; a Lanuvio, nel tempio di Giunone Sospita, si era sentito un boato seguito da un pauroso rimbombo. Per espiare questi prodigi fu tenuta una supplica della durata di un solo giorno e, visto che erano anche cadute pietre dal cielo, fu celebrato un novendiale sacro. A questi eventi si sovrappose il dibattito sul modo migliore di accoglIere la Madre Idea: non solo infatti Marco Valerio, che aveva preceduto i suoi compagni, aveva annunziato che presto sarebbe stata in Italia, ma anche una pi? recente notizia diceva che ormai si trovava a Terracina. Intanto il senato era occupato in un dibattito di non secondaria importanza, per individuare chi fosse il miglior uomo della cittadinanza: era chiaro, in tale scelta, che ognuno avrebbe preferito un simile successo personale pi? di qualsiasi comando o magistratura attribuiti dal voto del senato o del popolo. Il giudizio di miglior cittadino tra tutti i buoni cittadini di Roma si appunt? su Publio Scipione, figlio di quel Gneo che era caduto in Spagna e cos? giovane da non avere ancora l'et? per ottenere la questura. Come ben volentieri io tramanderei ai posteri - se fosse stato riferito dagli scrittori pi? vicini agli eventi di quei tempi - quali siano stati i pregi che hanno indotto ad esprimere un simile giudizio, cos? io non avanzer? mie interpretazioni congetturando su un fatto ormai sepolto dal tempo. Publio Cornelio ricevette disposizione di andare incontro alla dea a Ostia con tutte le matrone: egli doveva poi personalmente raccoglierla sulla nave e, una volta trasferitala a terra, consegnarla alle matrone per il trasporto. Dopo che la nave si fu accostata alla foce del fiume Tevere, secondo le disposizioni ricevute, egli si fece trasportare su una imbarcazione in alto mare, ricevendo la dea dai sacerdoti e portandola a terra. Ad accoglierla erano le pi? nobili matrone della citt?; tra di esse l'unica ad avere un nome celebre era Claudia Quinta: la reputazione di costei, fino a quel momento ambigua a quanto si racconta, rese pi? luminosa la sua pudicizia tra i posteri dopo un incarico tanto devotamente assolto. Le matrone, passandosi di mano in mano il simulacro, mentre tutta la cittadinanza si era riversata loro incontro e mentre dai tripodi posti presso le porte davanti alle quali transitava bruciava dell'incenso, portarono la dea nel tempio della Vittoria che si trova sul Palatino: intanto pregavano che volesse entrare - benevola e apportatrice di grazie - nella citt?. Era il 12 di aprile e quel giorno fu dichiarato festivo. Una folla molto numerosa rec? doni votivi alla dea sul Palatino; vi furono anche un lettisternio e dei giochi, chiamati in seguito Megalensi.

15. Mentre si discuteva sul modo di riempire i vuoti negli effettivi delle legioni che erano stanziate nelle diverse zone di operazioni, alcuni senatori fecero presente che, una volta venuta meno la paura grazie alla benevolenza degli d?i, era ormai giunto il momento in cui non si doveva pi? sopportare ci? che si era in qualche modo tollerato nei periodi di traversie. Questa affermazione attrasse l'attenzione di tutti i senatori e quelli aggiunsero che le dodici colonie latine, le quali sotto il consolato di Quinto Fabio e Quinto Fulvio, si erano rifiutate di fornire il contingente militare, da quasi sei anni, quasi a titolo di onore e di privilegio, godevano dell'esenzione dal fornire soldati, mentre gli alleati fedeli e obbedienti, in compenso della loro lealt? e devozione al popolo romano, erano esausti dalle continue leve di quegli anni. A queste parole, non solo si ridest? nei senatori il ricordo di un fatto ormai quasi dimenticato, ma anche si riaccese il loro risentimento. Perci? decisero che i consoli non mettessero in discussione altri argomenti e che facessero venire a Roma da Nepi, da Sutri, da Ardea, da Cales, da Alba, da Carseoli, da Sora, da Suessa, da Setia, da Circeii, da Narni, da Interamna (queste le colonie chiamate in causa) i magistrati e dieci influenti cittadini per ogni citt?. A costoro dovevano intimare che ogni colonia fornisse un numero di fanti doppio di quello che avrebbero dovuto dare al popolo romano dal momento in cui erano entrati in Italia i nemici e centoventi cavalieri; se qualche colonia non poteva far fronte a quel numero di cavalieri, poteva dare tre fanti per ogni cavali?re; fanti e cavalieri dovevano essere scelti tra coloro che avevano maggiori risorse e inviati in qualsiasi luogo in cui, fuori d'Italia, ci fosse bisogno di rinforzi. Se qualcuno si rifiutava, c'era l'ordine di trattenere i magistrati e i legati di quella colonia e, anche se lo avessero chiesto, non si doveva concedere loro udienza in senato prima che avessero eseguito quanto era stato ordinato; si doveva inoltre imporre a quelle colonie un tributo dell'uno per mille sui patrimoni, da riscuotersi ogni anno; il censimento doveva essere fatto in quelle colonie secondo le regole fissate dai censori romani (fu deciso che la regola fosse identica a quella applicata al censimento del popolo romano) e il risultato doveva essere recato a Roma dai censori delle colonie dopo aver prestato giuramento e prima di deporre la carica. In seguito a questa deliberazione senatoria furono chiamati a Roma i magistrati e i maggiorenti di quelle colonie ai quali i consoli imposero le forniture dei soldati e il tributo, ma essi facevano a gara nel rifiutare e nel sollevare obiezioni. Dicevano che non potevano mettere insieme un cos? alto numero di soldati: vi sarebbero riusciti, e a stento, se si fosse richiesto il numero ordinario previsto dai patti; pregavano e scongiuravano che fosse loro consentito di presentarsi in senato per dire le proprie ragioni; non avevano commesso nulla per cui' dovessero meritarsi una simile rovina. E se proprio dovevano subire quella sciagura, n? la loro colpa n? l'ira del popolo romano, potevano ottenere che fossero forniti pi? soldati di quanti avevano. Ma i consoli, inflessibili, ordinarono che i legati rimanessero a Roma mentre i magistrati dovevano tornare in patria per indire le leve: se non avessero condotto a Roma la quantit? di soldati richiesta, mai avrebbero ottenuto udienza in senato. Cos?, troncata di colpo la speranza di essere ammessi in senato e di evitare le leve in quelle dodici colonie, raggiunsero senza eccessive difficolt? il numero richiesto, essendo aumentato il numero dei giovani grazie alla lunga esenzione dal servizio.

Trad. Newton
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