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Bukowski
Re: Versioni di Plinio il giovane   stampa
Data:
24/05/2002 19.02.31




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Plinio, Lettere, I, 12 [traduzione sotto l'originale]

1) Iacturam gravissimam feci, si iactura dicenda est tanti viri amissio. Decessit Corellius Rufus et quidem sponte, quod dolorem meum exulcerat. Est enim luctuosissimum genus mortis, quae non ex natura nec fatalis videtur. (2) Nam utcumque in illis qui morbo finiuntur, magnum ex ipsa necessitate solacium est; in iis vero quos accersita mors aufert, hic insanabilis dolor est, quod creduntur potuisse diu vivere. (3) Corellium quidem summa ratio, quae sapientibus pro necessitate est, ad hoc consilium compulit, quamquam plurimas vivendi causas habentem, optimam conscientiam optimam famam, maximam auctoritatem, praeterea filiam uxorem nepotem sorores, interque tot pignora veros amicos. (4) Sed tam longa, tam iniqua valetudine conflictabatur, ut haec tanta pretia vivendi mortis rationibus vincerentur. Tertio et tricensimo anno, ut ipsum audiebam, pedum dolore correptus est. Patrius hic illi; nam plerumque morbi quoque per successiones quasdam ut alia traduntur. (5) Hunc abstinentia sanctitate, quoad viridis aetas, vicit et fregit; novissime cum senectute ingravescentem viribus animi sustinebat, cum quidem incredibiles cruciatus et indignissima tormenta pateretur. (6) Iam enim dolor non pedibus solis ut prius insidebat, sed omnia membra pervagabatur. Veni ad eum Domitiani temporibus in suburbano iacentem. (7) Servi e cubiculo recesserunt - habebat hoc moris, quotiens intrasset fidelior amicus -; quin etiam uxor quamquam omnis secreti capacissima digrediebatur. (8) Circumtulit oculos et 'Cur' inquit 'me putas hos tantos dolores tam diu sustinere? - ut scilicet isti latroni vel uno die supersim.'

(Caro [Calestrio] Tirone), ho sub?to una perdita gravissima, se basta chiamar cos? la morte di un tale grand'uomo. ? morto Corellio Rufo, e di sua propria volont?, il che esulcera il mio dolore. ? davvero la pi? luttuosa delle morti quella che non appare opera della natura o del destino. Ogni volta infatti che qualcuno muore di malattia la stessa ineluttabilit? ? di gran conforto, ma coloro che son rapiti da una morte voluta, oh, ? questo insanabile dolore, poich? si pensa che avrebbero potuto vivere pi? a lungo. Un motivo ben grande, che nei saggi tien luogo di necessit?, ha condotto Corellio a una tale decisione, bench? avesse molte ragioni per vivere, cio? una coscienza proba, una fama intemerata, una grande influenza e inoltre una figlia, una moglie, un nipote, delle sorelle e, fra tanti pegni di affetto, dei veri amici. Ma egli era afflitto da una malattia cos? prolungata, cos? terribile, che tutti quei doni della vita erano annullati dalle ragioni della morte.
A trentadue anni, come ho udito narrare da lui stesso, era stato colpito dalla podagra. Gli derivava dal padre; infatti spesso le malattie ci pervengono, come altre cose, quasi per successione. Finch? era in et? giovanile la sobriet?, la purezza di vita domarono e addolcirono il male; recentemente, essendosi questo aggravato col sopraggiungere della vecchiaia, lo sopportava per la forza dell'animo, pur soffrendo indicibili pene e non meritati tormenti. Il dolore infatti non era localizzato come prima nei soli piedi, ma si era diffuso per tutte le membra. Andai da lui ai tempi di Domiziano nella villa ove giaceva a letto. Gli schiavi uscirono dalla camera: tale era l'abitudine ogni volta che entrava un amico intimo: anche la moglie, bench? capacissima di mantener qualunque segreto, se ne andava. Gett? attorno lo sguardo e disse: ?Perch? ritieni che io sopporti cos? a lungo questi enormi dolori? perch? voglio sopravvivere almeno un giorno a quell'assassino?.

Trad. Mondadori

Plinio, Lettere, III, 5 [traduzione sotto l'originale]

8) Sed erat acre ingenium, incredibile studium, summa vigilantia. Lucubrare Vulcanalibus incipiebat non auspicandi causa sed studendi statim a nocte multa, hieme vero ab hora septima vel cum tardissime octava, saepe sexta. Erat sane somni paratissimi, non numquam etiam inter ipsa studia instantis et deserentis. (9) Ante lucem ibat ad Vespasianum imperatorem - nam ille quoque noctibus utebatur -, inde ad delegatum sibi officium. Reversus domum quod reliquum temporis studiis reddebat. (10) Post cibum saepe - quem interdiu levem et facilem veterum more sumebat - aestate si quid otii iacebat in sole, liber legebatur, adnotabat excerpebatque. Nihil enim legit quod non excerperet; dicere etiam solebat nullum esse librum tam malum ut non aliqua parte prodesset. (11) Post solem plerumque frigida lavabatur, deinde gustabat dormiebatque minimum; mox quasi alio die studebat in cenae tempus. Super hanc liber legebatur adnotabatur, et quidem cursim.

Ma era di intelligenza vigorosa, di incredibile applicazione, di grande resistenza alla veglia. Cominciava a lavorar vegliando alle feste di Vulcano, non per prendere gli auspici, ma per studiare, a partire da notte fonda, d'inverno dalla settima ora o, al pi? tardi, dall'ottava, sovente dalla sesta. Era del resto prontissimo a prender sonno, sovente riuscendo a lasciarlo o riprenderlo durante il proprio lavoro. Prima dell'alba si recava dall'imperatore Vespasiano (poich? anche questi profittava della notte), poi all'ufficio che gli era stato affidato. Rientrato a casa, il tempo che gli restava dedicava di nuovo allo studio. Sovente d'estate, dopo il pasto, che consumava durante il giorno, leggero e semplice all'uso antico, si sdraiava al sole, se ne aveva il tempo, si faceva leggere un libro, prendeva delle note e degli estratti. Nulla egli leggeva, da cui non traesse estratti: soleva infatti dire che non vi era libro tanto da poco, che non riuscisse in qualche parte utile. Dopo esser stato al sole si lavava quasi sempre con acqua fredda; poi si rifocillava e faceva un sonnellino; dopo, quasi fosse cominciato un nuovo giorno, studiava fino all'ora di cena. Durante questa gli leggevano un libro, si prendevano note, il tutto rapidamente.

Trad. Mondadori
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