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Mittente:
Bukowski
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Re: Ovidio
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Data:
30/05/2002 16.59.05
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Per sicurezza, t'invio l'intera I, 3 (tanto la parte che ti serve comincia dal verso uno, quindi puoi facilmente procedere per tuo conto fin dove ti serve)
Ovidio, Tristia, I, 3 [la traduzione ? sotto l'originale] Cum subit illius tristissima noctis imago, quae mihi supremum tempus in urbe fuit, cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui, labitur ex oculis nunc quoque gutta meis. iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar finibus extremae iusserat Ausoniae. nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi: torpuerant longa pectora nostra mora. non mihi seruorum, comitis non cura legendi, non aptae profugo uestis opisue fuit. non aliter stupui, quam qui Iouis ignibus ictus uiuit et est uitae nescius ipse suae. ut tamen hanc animi nubem dolor ipse remouit, et tandem sensus conualuere mei, alloquor extremum maestos abiturus amicos, qui modo de multis unus et alter erat. uxor amans flentem flens acrius ipsa tenebat, imbre per indignas usque cadente genas. nata procul Libycis aberat diuersa sub oris, nec poterat fati certior esse mei. quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant, formaque non taciti funeris intus erat. femina uirque meo, pueri quoque funere maerent, inque domo lacrimas angulus omnis habet. si licet exemplis in paruis grandibus uti, haec facies Troiae, cum caperetur, erat. iamque quiescebant uoces hominumque canumque Lunaque nocturnos alta regebat equos. hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens, quae nostro frustra iuncta fuere Lari, 'numina uicinis habitantia sedibus,' inquam, 'iamque oculis numquam templa uidenda meis, dique relinquendi, quos urbs habet alta Quirini, este salutati tempus in omne mihi. et quamquam sero clipeum post uulnera sumo, attamen hanc odiis exonerate fugam, caelestique uiro, quis me deceperit error, dicite, pro culpa ne scelus esse putet. ut quod uos scitis, poenae quoque sentiat auctor: placato possum non miser esse deo.' hac prece adoraui superos ego, pluribus uxor, singultu medios impediente sonos. illa etiam ante Lares passis adstrata capillis contigit extinctos ore tremente focos, multaque in auersos effudit uerba Penates pro deplorato non ualitura uiro. iamque morae spatium nox praecipitata negabat, uersaque ab axe suo Parrhasis Arctos erat. quid facerem? blando patriae retinebar amore, ultima sed iussae nox erat illa fugae. a! quotiens aliquo dixi properante 'quid urges? uel quo festinas ire, uel unde, uide.' a! quotiens certam me sum mentitus habere horam, propositae quae foret apta uiae. ter limen tetigi, ter sum reuocatus, et ipse indulgens animo pes mihi tardus erat. saepe 'uale' dicto rursus sum multa locutus, et quasi discedens oscula summa dedi. saepe eadem mandata dedi meque ipse fefelli, respiciens oculis pignora cara meis. denique 'quid propero? Scythia est, quo mittimur', inquam, 'Roma relinquenda est, utraque iusta mora. uxor in aeternum uiuo mihi uiua negatur, et domus et fidae dulcia membra domus, quosque ego dilexi fraterno more sodales, o mihi Thesea pectora iuncta fide! dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit amplius; in lucro est quae datur hora mihi.' nec mora sermonis uerba inperfecta relinquo, complectens animo proxima quaeque meo. dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto, stella grauis nobis, Lucifer ortus erat. diuidor haud aliter, quam si mea membra relinquam, et pars abrumpi corpore uisa suo est. sic doluit Mettus tum cum in contraria uersos ultores habuit proditionis equos. tum uero exoritur clamor gemitusque meorum, et feriunt maestae pectora nuda manus. tum uero coniunx umeris abeuntis inhaerens miscuit haec lacrimis tristia uerba suis: 'non potes auelli: simul ah! simul ibimus', inquit, 'te sequar et coniunx exulis exul ero. et mihi facta uia est, et me capit ultima tellus: accedam profugae sarcina parua rati. te iubet e patria discedere Caesaris ira, me pietas: pietas haec mihi Caesar erit.' talia temptabat, sicut temptauerat ante, uixque dedit uictas utilitate manus. egredior (siue illud erat sine funere ferri?) squalidus inmissis hirta per ora comis. illa dolore amens tenebris narratur obortis semianimis media procubuisse domo, utque resurrexit foedatis puluere turpi crinibus et gelida membra leuauit humo, se modo, desertos modo complorasse Penates, nomen et erepti saepe uocasse uiri, nec gemuisse minus, quam si nataeque meumque uidisset structos corpus habere rogos, et uoluisse mali moriendo ponere sensum, respectuque tamen non potuisse mei. uiuat et absentem, quoniam sic fata tulerunt, uiuat ut auxilio subleuet usque suo.
I 3 Quando mi si presenta la visione tristissima di quella notte in cui vissi le ultime mie ore in Roma, quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care, tuttora dai miei occhi scendono le lacrime. Si affacciava ormai il giorno, in cui Cesare mi aveva ordinato di partire dagli estremi confini dell'Ausonia. Non ebbi tempo n? volont? di preparare le cose pi? utili: a lungo l'animo aveva languito immerso nel torpore; non mi curai dei servi, n? di scegliere i compagni, n? delle vesti adatte o delle cose che giovano a un profugo. Ero stordito non diversamente da chi, colpito dal fulmine di Giove, ? rimasto in vita e non sa lui stesso di essere vivo. Quando tuttavia lo stesso dolore dissip? questa nube dell'anima, e finalmente i miei sensi si ripresero, prossimo a partire, parlo per l'ultima volta agli afflitti amici, dei quali solo due vi erano, dei molti che avevo poco prima. Piangevo e la sposa amorosa, in un pianto pi? amaro, mi teneva abbracciato e una pioggia continua cadeva per le guance innocenti. La figlia era assente, lontana, migrata sulle libiche rive e nulla poteva sapere della mia sorte Dovunque si guardava, risuonavano pianti e lamenti e dentro pareva ci fosse un funerale con le sue alte grida. Uomini, donne e pure bambini si struggono al mio funerale e nella casa ha lacrime ogni angolo. Se ? permesso ricorrere ai grandi esempi nei piccoli casi, questo era l'aspetto di Troia mentre era presa. Gi? tacevano le voci degli uomini e dei cani e la Luna guidava alta nel cielo i cavalli notturni: io guardandola e distinguendo al suo chiarore le moli del Campidoglio che invano furono attigue al mio Lare, ?0 Numi, dico, che avete sede in quelle dimore vicine, o templi che i miei occhi non potranno mai pi? rivedere, o D?i, che io debbo lasciare e che la citt? alta di Quirino racchiude, siate da me salutati per sempre. E sebbene tardi prendo lo scudo dopo le ferite, liberate tuttavia dal peso dell'odio questo esilio e dite all'uomo divino quale errore mi abbia ingannato perch? non giudichi delitto quello che fu solo una colpa, e ci? che voi conoscete persuada anche Lui che mi ha punito: potr? non essere infelice se il dio si sar? placato.? Con questa preghiera supplicai i celesti, con molte pi? altre la sposa, fra i singhiozzi che le troncavano a mezzo le parole. Poi gettatasi coi capelli scomposti ai piedi dei Lari baci? con le labbra tremanti lo spento focolare e a viso a viso davanti ai Penati rivers? tante parole che a nulla sarebbero valse per il compianto marito. Gi? la notte, al termine del suo declino, non lasciava pi? spazio all'indugio e l'Orsa Parrasia si era girata intorno al suo asse. Che cosa fare? Mi tratteneva il dolce amore della mia terra ma quella era l'ultima notte avanti l'esilio che mi era ordinato. Ah, quante volte dissi a chi sollecitava: ?Perch? fai fretta? Pensa dove hai fretta di andare, donde hai fretta di partire.? Ah, quante volte dissi mentendo di avere fissato un'ora un'ora opportuna per il viaggio prestabilito. Tre volte raggiunsi la soglia, tre volte tornai indietro e i piedi compiacendo il mio desiderio andavano lenti. Pi? volte, dopo aver detto ?addio?, di nuovo parlavo a lungo e come se gi? partissi davo gli ultimi baci. Pi? volte raccomandai le medesime cose e illudevo me stesso voltandomi a guardare, cari ai miei occhi, gli esseri amati. Infine: ?Perch? mi affretto? ? la Scizia dove mi mandano, dico ? Roma che devo lasciare: entrambe giusto motivo d'indugio. Vivo, mi viene tolta per sempre la sposa che ? viva e la casa e i dolci componenti di questa casa fedele e gli amici che ho amato di amore fraterno. O cuori a me uniti con fedelt? pari a quella di T?seo! Finch? mi ? possibile vi abbraccer?; non lo potr? forse mai pi?; ? un guadagno l'ora che mi ? concessa.? Pi? non indugio, tronco senza finirlo il mio parlare e abbraccio ogni persona pi? cara al mio cuore. Mentre parlo e piangiamo, fulgentissimo nell'alto cielo ? sorto, stella a me funesta, Lucifero. Me ne vado, ed ? come se lasciassi l? le mie membra e mi pare che una parte venga strappata via dal suo corpo. Cos? soffr? Mezio quando, a punire il suo tradimento, ebbe i cavalli lanciati a tirarlo in direzioni contrarie. Allora s?, si levano le grida e i lamenti dei miei e le mani afflitte battono i petti nudi allora s?, la mia sposa avvinta al mio collo mentre vado mescola alle mie lacrime queste tristi parole: ?Non puoi essermi strappato; insieme di qui, insieme partiremo dice, ti seguir? e sar? l'esule sposa di un esule. Anche per me ? aperta la strada, anche per me ha posto l'ultima terra: sar? un piccolo fardello in pi? per la tua barca di profugo. A te comanda di lasciare la patria l'ira di Cesare, a me l'amore. Per me sar? Cesare questo mio amore.? Cos? tentava, come aveva tentato anche prima, e a stento si arrese vinta a ci? che era utile. Esco, o quello era piuttosto il funerale di un vivo, scompigliato, con la barba ispida e i capelli cadenti sul viso. Lei pazza di dolore, mi dicono, fattosi il buio nei suoi occhi, cadde come morta nel mezzo della casa. Quando si sollev? coi capelli sporchi di lurida polvere e tolse dal freddo suolo le membra, pianse ora s? stessa abbandonata, ora abbandonati i Penati e chiam? pi? volte il nome del marito che le era strappato, e mand? lamenti non meno che se avesse visto sui roghi eretti i corpi della figlia e del marito e voleva morire, e morendo non sentire pi? nulla, ma tuttavia per riguardo a me serb? la sua vita. Viva e, poich? cos? ha voluto il destino, viva e soccorra col suo aiuto l'assente.
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 1-48. (ti riporto il brano fino al punto) [la traduzione ? sotto l'originale]
In nova fert animus mutatas dicere formas corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) adspirate meis primaque ab origine mundi ad mea perpetuum deducite tempora carmen! Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum 5 unus erat toto naturae vultus in orbe, quem dixere chaos: rudis indigestaque moles nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem non bene iunctarum discordia semina rerum. nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan, 10 nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe, nec circumfuso pendebat in aere tellus ponderibus librata suis, nec bracchia longo margine terrarum porrexerat Amphitrite; utque erat et tellus illic et pontus et aer, 15 sic erat instabilis tellus, innabilis unda, lucis egens aer; nulli sua forma manebat, obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno frigida pugnabant calidis, umentia siccis, mollia cum duris, sine pondere, habentia pondus. 20 Hanc deus et melior litem natura diremit. nam caelo terras et terris abscidit undas et liquidum spisso secrevit ab aere caelum. quae postquam evolvit caecoque exemit acervo, dissociata locis concordi pace ligavit: 25 ignea convexi vis et sine pondere caeli emicuit summaque locum sibi fecit in arce; proximus est aer illi levitate locoque; densior his tellus elementaque grandia traxit et pressa est gravitate sua; circumfluus umor 30 ultima possedit solidumque coercuit orbem. Sic ubi dispositam quisquis fuit ille deorum congeriem secuit sectamque in membra coegit, principio terram, ne non aequalis ab omni parte foret, magni speciem glomeravit in orbis. 35 tum freta diffundi rapidisque tumescere ventis iussit et ambitae circumdare litora terrae; addidit et fontes et stagna inmensa lacusque fluminaque obliquis cinxit declivia ripis, quae, diversa locis, partim sorbentur ab ipsa, 40 in mare perveniunt partim campoque recepta liberioris aquae pro ripis litora pulsant. iussit et extendi campos, subsidere valles, fronde tegi silvas, lapidosos surgere montes, utque duae dextra caelum totidemque sinistra 45 parte secant zonae, quinta est ardentior illis, sic onus inclusum numero distinxit eodem cura dei, totidemque plagae tellure premuntur.
narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno, cos? che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni. Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre, unico era il volto della natura in tutto l'universo, quello che ? detto Caos, mole informe e confusa, non pi? che materia inerte, una congerie di germi differenti di cose mal combinate fra loro. Non c'era Titano che donasse al mondo la luce, n? Febe che nuova crescendo unisse le sue corna; in mezzo all'aria, retta dalla gravit?, non si librava la terra, n? lungo i margini dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia. E per quanto l? ci fossero terra, mare ed aria, malferma era la prima, non navigabile l'onda, l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile, ogni cosa s'opponeva all'altra, perch? in un corpo solo il freddo lottava col caldo, l'umido col secco, il molle col duro, il peso con l'assenza di peso. Un dio, col favore di natura, san? questi contrasti: dal cielo separ? la terra, dalla terra il mare e dall'aria densa distinse il cielo limpido. E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe, riun? quelli dispersi nello spazio in concorde armonia. Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste, guizz? insediandosi negli strati pi? alti; poco pi? sotto per la sua leggerezza si trova l'aria; la terra, resa densa dai massicci elementi assorbiti, rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare, occupati gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma. Quando cos? ebbe spartito in ordine quella congerie e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse, prima agglomer? la terra in un grande globo, perch? fosse uniforme in ogni parte; poi ordin? ai flutti, gonfiati dall'impeto dei venti, di espandersi a cingere le coste lungo la terra. E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi; strinse tra le rive tortuose le correnti dei fiumi, che secondo il percorso scompaiono sottoterra o arrivano al mare e, raccolti in quella pi? ampia distesa, invece che sugli argini, s'infrangono sulle scogliere. E al suo comando si stesero campi, s'incisero valli, fronde coprirono i boschi, sorsero montagne rocciose. Cos? come il cielo ? diviso in due zone a sinistra e altrettante a destra, con una pi? torrida al centro, la divinit? ne distinse la materia interna in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche.
Trad. database progettovidio
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• Ovidio Re: Ovidio
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