LETTERATURA torna alla homepage
PRECICERONIANA CICERONIANA AUGUSTEA IMPERIALE RISORSE
     
Ovidio


  Cerca







Progetto Ovidio - forum

pls - prima d'inoltrare richieste in forum
leggete le condizioni e i suggerimenti del FORUM NETIQUETTE

FORUM APERTO
>>> qualche suggerimento per tradurre bene (da: studentimiei.it)

--- altri forum di consulenza: DISCIPULUS.IT - LATINORUM - LATINE.NET ---



Leggi il messaggio

Mittente:
Bukowski
Re: Versioni Ovidio   stampa
Data:
03/09/2002 14.48.10




Rispondi a questo messaggio  rispondi al msg

Scrivi un nuovo messaggio  nuovo msg

Cerca nel forum  cerca nel forum

Torna all'indice del forum  torna all'indice
Quanto odio queste richieste :)
Le traduzioni sono sotto i rispettivi originali. Saluti.


Ovidio, Metamorfosi, I, 89-112

Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,
sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. 90
poena metusque aberant, nec verba minantia fixo
aere legebantur, nec supplex turba timebat
iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti.
nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem,
montibus in liquidas pinus descenderat undas, 95
nullaque mortales praeter sua litora norant;
nondum praecipites cingebant oppida fossae;
non tuba derecti, non aeris cornua flexi,
non galeae, non ensis erat: sine militis usu
mollia securae peragebant otia gentes. 100
ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus,
contentique cibis nullo cogente creatis
arbuteos fetus montanaque fraga legebant
cornaque et in duris haerentia mora rubetis 105
et quae deciderant patula Iovis arbore glandes.
ver erat aeternum, placidique tepentibus auris
mulcebant zephyri natos sine semine flores;
mox etiam fruges tellus inarata ferebat,
nec renovatus ager gravidis canebat aristis; 110
flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant,
flavaque de viridi stillabant ilice mella.

Per prima fior? l'et? dell'oro, che senza giustizieri
o leggi, spontaneamente onorava lealt? e rettitudine.
Non v'era timore di pene, n? incise nel bronzo
si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva
i verdetti di un giudice, sicura e libera com'era.
Reciso dai suoi monti, nell'onda limpida il pino
ancora non s'era immerso per scoprire terre straniere
e i mortali non conoscevano lidi se non i propri.
Ancora non cingevano le citt? fossati scoscesi,
non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo,
n? elmi o spade: senza bisogno di eserciti,
la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio.
Libera, non toccata dal rastrello, non solcata
dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da s?
e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,
raccoglievano corbezzoli, fragole di monte,
corniole, more nascoste tra le spine dei rovi
e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove.
Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri
accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme,
e subito la terra non arata produceva frutti,
i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature;
e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano,
mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato.


Ovidio, Metamorfosi, I, 348-415

Redditus orbis erat; quem postquam vidit inanem
et desolatas agere alta silentia terras,
Deucalion lacrimis ita Pyrrham adfatur obortis: 350
'o soror, o coniunx, o femina sola superstes,
quam commune mihi genus et patruelis origo,
deinde torus iunxit, nunc ipsa pericula iungunt,
terrarum, quascumque vident occasus et ortus,
nos duo turba sumus; possedit cetera pontus. 355
haec quoque adhuc vitae non est fiducia nostrae
certa satis; terrent etiamnum nubila mentem.
quis tibi, si sine me fatis erepta fuisses,
nunc animus, miseranda, foret? quo sola timorem
ferre modo posses? quo consolante doleres! 360
namque ego (crede mihi), si te quoque pontus haberet,
te sequerer, coniunx, et me quoque pontus haberet.
o utinam possim populos reparare paternis
artibus atque animas formatae infundere terrae!
nunc genus in nobis restat mortale duobus. 365
sic visum superis: hominumque exempla manemus.'
dixerat, et flebant: placuit caeleste precari
numen et auxilium per sacras quaerere sortes.
nulla mora est: adeunt pariter Cephesidas undas,
ut nondum liquidas, sic iam vada nota secantes. 370
inde ubi libatos inroravere liquores
vestibus et capiti, flectunt vestigia sanctae
ad delubra deae, quorum fastigia turpi
pallebant musco stabantque sine ignibus arae.
ut templi tetigere gradus, procumbit uterque 375
pronus humi gelidoque pavens dedit oscula saxo
atque ita 'si precibus' dixerunt 'numina iustis
victa remollescunt, si flectitur ira deorum,
dic, Themi, qua generis damnum reparabile nostri
arte sit, et mersis fer opem, mitissima, rebus!' 380
Mota dea est sortemque dedit: 'discedite templo
et velate caput cinctasque resolvite vestes
ossaque post tergum magnae iactate parentis!'
obstupuere diu: rumpitque silentia voce
Pyrrha prior iussisque deae parere recusat, 385
detque sibi veniam pavido rogat ore pavetque
laedere iactatis maternas ossibus umbras.
interea repetunt caecis obscura latebris
verba datae sortis secum inter seque volutant.
inde Promethides placidis Epimethida dictis 390
mulcet et 'aut fallax' ait 'est sollertia nobis,
aut (pia sunt nullumque nefas oracula suadent!)
magna parens terra est: lapides in corpore terrae
ossa reor dici; iacere hos post terga iubemur.'
Coniugis augurio quamquam Titania mota est, 395
spes tamen in dubio est: adeo caelestibus ambo
diffidunt monitis; sed quid temptare nocebit?
descendunt: velantque caput tunicasque recingunt
et iussos lapides sua post vestigia mittunt.
saxa (quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?) 400
ponere duritiem coepere suumque rigorem
mollirique mora mollitaque ducere formam.
mox ubi creverunt naturaque mitior illis
contigit, ut quaedam, sic non manifesta videri
forma potest hominis, sed uti de marmore coepta 405
non exacta satis rudibusque simillima signis,
quae tamen ex illis aliquo pars umida suco
et terrena fuit, versa est in corporis usum;
quod solidum est flectique nequit, mutatur in ossa,
quae modo vena fuit, sub eodem nomine mansit, 410
inque brevi spatio superorum numine saxa
missa viri manibus faciem traxere virorum
et de femineo reparata est femina iactu.
inde genus durum sumus experiensque laborum
et documenta damus qua simus origine nati. 415

Restituita era la terra; ma come la vide deserta
e desolata dal cupo silenzio che incombeva, Deucalione
si volse a Pirra trafitto di pianto. Disse:
?O sorella, o sposa, unica donna rimasta,
che dividi con me la stirpe e l'origine di famiglia,
il giaciglio delle nozze e qui gli stessi timori,
noi due soli siamo tutti gli esseri della terra
che vede l'aurora e il tramonto: il resto ? sommerso dal mare.
N?, certo, questa nostra vita puoi dire sicura,
se ancora e sempre quelle nuvole ci opprimono la mente.
Quale sarebbe ora l'animo tuo, se fossi sfuggita
alla morte senza di me? Come potresti sopportare
la paura qui da sola? come consolare il dolore?
E io pure t'avrei seguito, o sposa, se il mare t'avesse
inghiottito, credimi, anche me lo stesso mare avrebbe inghiottito.
Oh se con l'arte paterna potessi ricreare gli uomini
e plasmando la creta infondervi respiro!
Ora in noi soli vive la qualit? dei mortali,
questo il volere degli dei, restiamo unici esempi?.
Disse, e piangevano. Decisero di invocare la volont?
dei celesti e di chiedere aiuto agli oracoli.
Senza indugio si accostarono insieme alla corrente del Cefiso,
che, pur non ancora limpida, gi? fluiva nel suo letto.
Attinta un po' d'acqua, la spruzzarono sulle vesti
e sul capo; quindi volsero i passi verso il santuario
della dea, scolorito e deturpato sino in cima
dal muschio e privo di qualsiasi fuoco sugli altari.
Giunti ai gradini del tempio, si prostrarono fianco a fianco
sino a terra, baciarono intimoriti la pietra gelida
e: ?Se a preghiere devote?, dissero, ?le divinit?
si rabboniscono, se l'ira degli dei si placa,
rivelaci, o Temi, come si possa rimediare alla rovina
della nostra stirpe e soccorri, tu cos? mite, il mondo sommerso?.
Commossa la dea sentenzi?: ?Andando via dal tempio
velatevi il capo, slacciatevi le vesti
e alle spalle gettate le ossa della grande madre?.
Lungo fu il loro smarrimento, poi Pirra ruppe il silenzio
per prima, rifiutandosi di obbedire a quegli ordini e per s?
invocava, con voce tremante, il perdono divino al timore
di offendere l'ombra di sua madre, disperdendone le ossa.
E continuano a ripetersi dentro le parole oscure,
impenetrabili del responso e a girarvi intorno.
Ma a un tratto il figlio di Prom?teo rasserena la sua sposa
con queste parole pacate: ?O io m'inganno o giusto
? l'oracolo e non c'induce in sacrilegio.
La grande madre ? la terra; per ossa credo intenda
le pietre del suo corpo: queste dobbiamo noi gettarci alle spalle?.
La figlia del Titano ? scossa dall'intuito del marito,
anche se dubbia ? la speranza, tanto incredibile sembra a loro
il consiglio divino. Ma che male s'aveva a tentare?
S'incamminano, velandosi il capo, sciogliendo le vesti,
e ubbidendo, lanciano pietre alle spalle sui loro passi.
E i sassi (chi lo crederebbe se non l'attestasse il tempo antico?)
cominciarono a perdere la loro rigida durezza,
ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma.
Poi, quando crebbero e pi? duttile si fece la natura loro,
fu possibile in questi intravedere forme umane,
ancora imprecise, come se fossero abbozzate
nel marmo, in tutto simili a statue appena iniziate.
E se in loro v'era una parte umida di qualche umore
o di terriccio, fu usata a formare il corpo;
ci? che era solido e rigido fu mutato in ossa;
quelle che erano vene, rimasero con lo stesso nome.
E in breve tempo, per volere degli dei, i sassi
scagliati dalla mano dell'uomo assunsero l'aspetto di uomini,
mentre dai lanci della donna la donna rinacque.
Per questo siamo una razza dura, allenata alle fatiche,
e diamo testimonianza di che origine siamo.



Ovidio, Metamorfosi, III, 351-419

namque ter ad quinos unum Cephisius annum
addiderat poteratque puer iuvenisque videri:
multi illum iuvenes, multae cupiere puellae;
sed fuit in tenera tam dura superbia forma,
nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae. 355
adspicit hunc trepidos agitantem in retia cervos
vocalis nymphe, quae nec reticere loquenti
nec prior ipsa loqui didicit, resonabilis Echo.
Corpus adhuc Echo, non vox erat et tamen usum
garrula non alium, quam nunc habet, oris habebat, 360
reddere de multis ut verba novissima posset.
fecerat hoc Iuno, quia, cum deprendere posset
sub Iove saepe suo nymphas in monte iacentis,
illa deam longo prudens sermone tenebat,
dum fugerent nymphae. postquam hoc Saturnia sensit, 365
'huius' ait 'linguae, qua sum delusa, potestas
parva tibi dabitur vocisque brevissimus usus,'
reque minas firmat. tantum haec in fine loquendi
ingeminat voces auditaque verba reportat.
ergo ubi Narcissum per devia rura vagantem 370
vidit et incaluit, sequitur vestigia furtim,
quoque magis sequitur, flamma propiore calescit,
non aliter quam cum summis circumlita taedis
admotas rapiunt vivacia sulphura flammas.
o quotiens voluit blandis accedere dictis 375
et mollis adhibere preces! natura repugnat
nec sinit, incipiat, sed, quod sinit, illa parata est
exspectare sonos, ad quos sua verba remittat.
forte puer comitum seductus ab agmine fido
dixerat: 'ecquis adest?' et 'adest' responderat Echo. 380
hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnis,
voce 'veni!' magna clamat: vocat illa vocantem.
respicit et rursus nullo veniente 'quid' inquit
'me fugis?' et totidem, quot dixit, verba recepit.
perstat et alternae deceptus imagine vocis 385
'huc coeamus' ait, nullique libentius umquam
responsura sono 'coeamus' rettulit Echo
et verbis favet ipsa suis egressaque silva
ibat, ut iniceret sperato bracchia collo;
ille fugit fugiensque 'manus conplexibus aufer! 390
ante' ait 'emoriar, quam sit tibi copia nostri';
rettulit illa nihil nisi 'sit tibi copia nostri!'
spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae; 395
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
inde latet silvis nulloque in monte videtur, 400
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
Sic hanc, sic alias undis aut montibus ortas
luserat hic nymphas, sic coetus ante viriles;
inde manus aliquis despectus ad aethera tollens
'sic amet ipse licet, sic non potiatur amato!' 405
dixerat: adsensit precibus Rhamnusia iustis.
fons erat inlimis, nitidis argenteus undis,
quem neque pastores neque pastae monte capellae
contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris
nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus; 410
gramen erat circa, quod proximus umor alebat,
silvaque sole locum passura tepescere nullo.
hic puer et studio venandi lassus et aestu
procubuit faciemque loci fontemque secutus,
dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit, 415
dumque bibit, visae correptus imagine formae
spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod umbra est.
adstupet ipse sibi vultuque inmotus eodem
haeret, ut e Pario formatum marmore signum;

Di un anno aveva ormai superato i quindici il figlio di Cefiso
e poteva sembrare tanto un fanciullo che un giovane:
pi? di un giovane, pi? di una fanciulla lo desiderava,
ma in quella tenera bellezza v'era una superbia cos? ingrata,
che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo tocc?.
Mentre spaventava i cervi per spingerli dentro le reti,
lo vide quella ninfa canora, che non sa tacere se parli,
ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni.
Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora,
bench? loquace, non diversamente usava la sua bocca,
non riuscendo a rimandare di molte parole che le ultime.
Questo si doveva a Giunone, perch? tutte le volte che avrebbe
potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove,
quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi
per dar modo alle ninfe di fuggire. Quando la dea se ne accorse:
?Di questa lingua che mi ha ingannato?, disse, ?potrai disporre
solo in parte: ridottissimo sar? l'uso che tu potrai farne?.
E coi fatti conferm? le minacce: solo a fine di un discorso
Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito.
Ora, quando vide Narciso vagare in campagne fuori mano,
Eco se ne infiamm? e ne segu? le orme di nascosto;
e quanto pi? lo segue, tanto pi? vicino alla fiamma si brucia,
come lo zolfo che, spalmato in cima ad una fiaccola,
in un attimo divampa se si accosta alla fiamma.
Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole
e rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta,
non le permette di tentare; ma, e questo le ? permesso, sta pronta
ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue stesse parole.
Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni,
aveva urlato: ?C'? qualcuno?? ed Eco: ?Qualcuno? risponde.
Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi,
grida a gran voce: ?Vieni!?; e lei chiama chi l'ha chiamata.
Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: ?Perch??, chiede,
?mi sfuggi??, e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta.
Insiste e, ingannato dal rimbalzare della voce:
?Qui riuniamoci!? esclama, ed Eco che a nessun invito
mai risponderebbe pi? volentieri: ?Uniamoci!? ripete.
E decisa a far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro
per gettargli, come sogna, le braccia al collo.
Lui fugge e fuggendo: ?Togli queste mani, non abbracciarmi!?
grida. ?Possa piuttosto morire che darmi a te!?.
E lei nient'altro risponde che: ?Darmi a te!?.
Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti.
Ma l'amore ? confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto:
un tormento incessante le estenua sino alla piet? il corpo,
la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo
si dissolvono nell'aria. Non restano che voce e ossa:
la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre.
E da allora sta celata nei boschi, mai pi? ? apparsa sui monti;
ma dovunque puoi sentirla: ? il suono, che vive in lei.
Cos? di lei, cos? d'altre ninfe nate in mezzo alle onde o sui monti
s'era beffato Narciso, come prima d'una folla di giovani.
Finch? una vittima del suo disprezzo non lev? al cielo le mani:
?Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!?.
Cos? disse, e la dea di Ramnunte assent? a quella giusta preghiera.
C'era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti,
che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti
o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera
o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita.
Intorno c'era un prato, che la linfa vicina nutriva,
e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo.
Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa,
s'innamora d'una chimera: corpo crede ci? che solo ? ombra.
Attonito fissa s? stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.



Ovidio, Metamorfosi, III, 463-470
iste ego sum: sensi, nec me mea fallit imago;
uror amore mei: flammas moveoque feroque.
quid faciam? roger anne rogem? quid deinde rogabo? 465
quod cupio mecum est: inopem me copia fecit.
o utinam a nostro secedere corpore possem!
votum in amante novum, vellem, quod amamus, abesset.
iamque dolor vires adimit, nec tempora vitae
longa meae superant, primoque exstinguor in aevo. 470

Io, sono io! l'ho capito, l'immagine mia non m'inganna pi?!
Per me stesso brucio d'amore, accendo e subisco la fiamma!
Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?
Ci? che desidero ? in me: un tesoro che mi rende impotente.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo!
Voto inaudito per gli amanti: voler distante chi amiamo!
Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta
da vivere pi? di tanto: mi spengo nel fiore degli anni.




Ovidio, Metamorfosi, III, 480-510
dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora 480
nudaque marmoreis percussit pectora palmis.
pectora traxerunt roseum percussa ruborem,
non aliter quam poma solent, quae candida parte,
parte rubent, aut ut variis solet uva racemis
ducere purpureum nondum matura colorem. 485
quae simul adspexit liquefacta rursus in unda,
non tulit ulterius, sed ut intabescere flavae
igne levi cerae matutinaeque pruinae
sole tepente solent, sic attenuatus amore
liquitur et tecto paulatim carpitur igni; 490
et neque iam color est mixto candore rubori,
nec vigor et vires et quae modo visa placebant,
nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.
quae tamen ut vidit, quamvis irata memorque,
indoluit, quotiensque puer miserabilis 'eheu' 495
dixerat, haec resonis iterabat vocibus 'eheu';
cumque suos manibus percusserat ille lacertos,
haec quoque reddebat sonitum plangoris eundem.
ultima vox solitam fuit haec spectantis in undam:
'heu frustra dilecte puer!' totidemque remisit 500
verba locus, dictoque vale 'vale' inquit et Echo.
ille caput viridi fessum submisit in herba,
lumina mors clausit domini mirantia formam:
tum quoque se, postquam est inferna sede receptus,
in Stygia spectabat aqua. planxere sorores 505
naides et sectos fratri posuere capillos,
planxerunt dryades; plangentibus adsonat Echo.
iamque rogum quassasque faces feretrumque parabant:
nusquam corpus erat; croceum pro corpore florem
inveniunt foliis medium cingentibus albis. 510

In mezzo ai lamenti, dall'orlo in alto lacera la veste
e con le palme bianche come il marmo si percuote il petto nudo.
Ai colpi il petto si colora di un tenue rossore,
come accade alla mela che, candida su una faccia,
si accende di rosso sull'altra, o come all'uva
che in grappoli cangianti si vela di porpora quando matura.
Specchiandosi nell'acqua tornata di nuovo limpida,
non resiste pi? e, come cera bionda al brillio
di una fiammella o la brina del mattino al tepore
del sole si sciolgono, cos?, sfinito d'amore,
si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma.
Del suo colorito rosa misto al candore ormai non v'? pi? traccia,
n? del fuoco, delle forze, di ci? che prima incantava la vista,
e nemmeno il corpo ? pi? quello che Eco aveva amato un tempo.
Ma quando lei lo vide cos?, malgrado la collera al ricordo,
si addolora e ogni volta che l'infelice mormora 'Ahim?',
rimandandogli la voce ripete 'Ahim?',
e quando il ragazzo con le mani si percuote le braccia,
replica lo stesso suono, quello delle percosse.
Le ultime sue parole, mentre fissava l'acqua una volta ancora,
furono: ?Ahim?, fanciullo amato invano?, e le stesse parole
gli rimand? il luogo; e quando disse 'Addio', Eco 'Addio' disse.
Poi reclin? il suo capo stanco sull'erba verde e la morte chiuse
quegli occhi incantati sulle fattezze del loro padrone.
E anche quando fu accolto negli ?nferi, mai smise di contemplarsi
nelle acque dello Stige. Un lungo lamento levarono le Naiadi
sue sorelle, offrendogli le chiome recise;
un lungo lamento le Driadi, ed Eco un? la sua voce alla loro.
Gi? approntavano il rogo, le fiaccole da agitare e il feretro:
il corpo era scomparso; al posto suo scorsero un fiore,
giallo nel mezzo e tutto circondato di petali bianchi.









Ovidio, Tristia I,3 vv. 1-26
Cum subit illius tristissima noctis imago,
quae mihi supremum tempus in urbe fuit,
cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui,
labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.
iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar
finibus extremae iusserat Ausoniae.
nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi:
torpuerant longa pectora nostra mora.
non mihi seruorum, comitis non cura legendi,
non aptae profugo uestis opisue fuit.
non aliter stupui, quam qui Iouis ignibus ictus
uiuit et est uitae nescius ipse suae.
ut tamen hanc animi nubem dolor ipse remouit,
et tandem sensus conualuere mei,
alloquor extremum maestos abiturus amicos,
qui modo de multis unus et alter erat.
uxor amans flentem flens acrius ipsa tenebat,
imbre per indignas usque cadente genas.
nata procul Libycis aberat diuersa sub oris,
nec poterat fati certior esse mei.
quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant,
formaque non taciti funeris intus erat.
femina uirque meo, pueri quoque funere maerent,
inque domo lacrimas angulus omnis habet.
si licet exemplis in paruis grandibus uti,
haec facies Troiae, cum caperetur, erat.

Quando mi si presenta la visione tristissima di quella notte
in cui vissi le ultime mie ore in Roma,
quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care,
tuttora dai miei occhi scendono le lacrime.
Si affacciava ormai il giorno, in cui Cesare mi aveva ordinato
di partire dagli estremi confini dell'Ausonia.
Non ebbi tempo n? volont? di preparare le cose pi? utili:
a lungo l'animo aveva languito immerso nel torpore;
non mi curai dei servi, n? di scegliere i compagni,
n? delle vesti adatte o delle cose che giovano a un profugo.
Ero stordito non diversamente da chi, colpito dal fulmine
di Giove, ? rimasto in vita e non sa lui stesso di essere vivo.
Quando tuttavia lo stesso dolore dissip? questa nube
dell'anima, e finalmente i miei sensi si ripresero,
prossimo a partire, parlo per l'ultima volta agli afflitti amici,
dei quali solo due vi erano, dei molti che avevo poco prima.
Piangevo e la sposa amorosa, in un pianto pi? amaro, mi teneva
abbracciato e una pioggia continua cadeva per le guance innocenti.
La figlia era assente, lontana, migrata sulle libiche
rive e nulla poteva sapere della mia sorte
Dovunque si guardava, risuonavano pianti e lamenti
e dentro pareva ci fosse un funerale con le sue alte grida.
Uomini, donne e pure bambini si struggono al mio funerale
e nella casa ha lacrime ogni angolo.
Se ? permesso ricorrere ai grandi esempi nei piccoli casi,
questo era l'aspetto di Troia mentre era presa.



Ovidio, Tristia I,3 vv. 47-102
iamque morae spatium nox praecipitata negabat,
uersaque ab axe suo Parrhasis Arctos erat.
quid facerem? blando patriae retinebar amore,
ultima sed iussae nox erat illa fugae.
a! quotiens aliquo dixi properante 'quid urges?
uel quo festinas ire, uel unde, uide.'
a! quotiens certam me sum mentitus habere
horam, propositae quae foret apta uiae.
ter limen tetigi, ter sum reuocatus, et ipse
indulgens animo pes mihi tardus erat.
saepe 'uale' dicto rursus sum multa locutus,
et quasi discedens oscula summa dedi.
saepe eadem mandata dedi meque ipse fefelli,
respiciens oculis pignora cara meis.
denique 'quid propero? Scythia est, quo mittimur', inquam,
'Roma relinquenda est, utraque iusta mora.
uxor in aeternum uiuo mihi uiua negatur,
et domus et fidae dulcia membra domus,
quosque ego dilexi fraterno more sodales,
o mihi Thesea pectora iuncta fide!
dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit
amplius; in lucro est quae datur hora mihi.'
nec mora sermonis uerba inperfecta relinquo,
complectens animo proxima quaeque meo.
dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto,
stella grauis nobis, Lucifer ortus erat.
diuidor haud aliter, quam si mea membra relinquam,
et pars abrumpi corpore uisa suo est.
sic doluit Mettus tum cum in contraria uersos
ultores habuit proditionis equos.
tum uero exoritur clamor gemitusque meorum,
et feriunt maestae pectora nuda manus.
tum uero coniunx umeris abeuntis inhaerens
miscuit haec lacrimis tristia uerba suis:
'non potes auelli: simul ah! simul ibimus', inquit,
'te sequar et coniunx exulis exul ero.
et mihi facta uia est, et me capit ultima tellus:
accedam profugae sarcina parua rati.
te iubet e patria discedere Caesaris ira,
me pietas: pietas haec mihi Caesar erit.'
talia temptabat, sicut temptauerat ante,
uixque dedit uictas utilitate manus.
egredior (siue illud erat sine funere ferri?)
squalidus inmissis hirta per ora comis.
illa dolore amens tenebris narratur obortis
semianimis media procubuisse domo,
utque resurrexit foedatis puluere turpi
crinibus et gelida membra leuauit humo,
se modo, desertos modo complorasse Penates,
nomen et erepti saepe uocasse uiri,
nec gemuisse minus, quam si nataeque meumque
uidisset structos corpus habere rogos,
et uoluisse mali moriendo ponere sensum,
respectuque tamen non potuisse mei.
uiuat et absentem, quoniam sic fata tulerunt,
uiuat ut auxilio subleuet usque suo.

Gi? la notte, al termine del suo declino, non lasciava pi? spazio
all'indugio e l'Orsa Parrasia si era girata intorno al suo asse.
Che cosa fare? Mi tratteneva il dolce amore della mia terra
ma quella era l'ultima notte avanti l'esilio che mi era ordinato.
Ah, quante volte dissi a chi sollecitava: ?Perch? fai fretta?
Pensa dove hai fretta di andare, donde hai fretta di partire.?
Ah, quante volte dissi mentendo di avere fissato un'ora un'ora
opportuna per il viaggio prestabilito.
Tre volte raggiunsi la soglia, tre volte tornai indietro
e i piedi compiacendo il mio desiderio andavano lenti.
Pi? volte, dopo aver detto ?addio?, di nuovo parlavo a lungo
e come se gi? partissi davo gli ultimi baci.
Pi? volte raccomandai le medesime cose e illudevo me stesso
voltandomi a guardare, cari ai miei occhi, gli esseri amati.
Infine: ?Perch? mi affretto? ? la Scizia dove mi mandano, dico
? Roma che devo lasciare: entrambe giusto motivo d'indugio.
Vivo, mi viene tolta per sempre la sposa che ? viva
e la casa e i dolci componenti di questa casa fedele
e gli amici che ho amato di amore fraterno.
O cuori a me uniti con fedelt? pari a quella di T?seo!
Finch? mi ? possibile vi abbraccer?; non lo potr? forse
mai pi?; ? un guadagno l'ora che mi ? concessa.?
Pi? non indugio, tronco senza finirlo il mio parlare
e abbraccio ogni persona pi? cara al mio cuore.
Mentre parlo e piangiamo, fulgentissimo nell'alto cielo
? sorto, stella a me funesta, Lucifero.
Me ne vado, ed ? come se lasciassi l? le mie membra
e mi pare che una parte venga strappata via dal suo corpo.
Cos? soffr? Mezio quando, a punire il suo tradimento,
ebbe i cavalli lanciati a tirarlo in direzioni contrarie.
Allora s?, si levano le grida e i lamenti dei miei
e le mani afflitte battono i petti nudi
allora s?, la mia sposa avvinta al mio collo mentre vado
mescola alle mie lacrime queste tristi parole:
?Non puoi essermi strappato; insieme di qui, insieme partiremo
dice, ti seguir? e sar? l'esule sposa di un esule.
Anche per me ? aperta la strada, anche per me ha posto l'ultima
terra: sar? un piccolo fardello in pi? per la tua barca
di profugo. A te comanda di lasciare la patria l'ira di Cesare,
a me l'amore. Per me sar? Cesare questo mio amore.?
Cos? tentava, come aveva tentato anche prima,
e a stento si arrese vinta a ci? che era utile.
Esco, o quello era piuttosto il funerale di un vivo,
scompigliato, con la barba ispida e i capelli cadenti sul viso.
Lei pazza di dolore, mi dicono, fattosi il buio
nei suoi occhi, cadde come morta nel mezzo della casa.
Quando si sollev? coi capelli sporchi di lurida
polvere e tolse dal freddo suolo le membra,
pianse ora s? stessa abbandonata, ora abbandonati i Penati
e chiam? pi? volte il nome del marito che le era strappato,
e mand? lamenti non meno che se avesse visto sui roghi
eretti i corpi della figlia e del marito
e voleva morire, e morendo non sentire pi? nulla,
ma tuttavia per riguardo a me serb? la sua vita.
Viva e, poich? cos? ha voluto il destino,
viva e soccorra col suo aiuto l'assente.


Tradd. tratte dal database di progettovidio

  Versioni Ovidio
      Re: Versioni Ovidio
 

aggiungi questa pagina ai preferiti aggiungi ai preferiti imposta progettovidio come pagina iniziale imposta come pagina iniziale  torna su

tutto il materiale presente su questo sito è a libera disposizione di tutti, ad uso didattico e personale, non profit/no copyright --- bukowski

  HOMEPAGE

  SEGNALA IL SITO

  FAQ 


  NEWSGROUP

%  DISCLAIMER  %

ideatore, responsabile e content editor NUNZIO CASTALDI (bukowski)
powered by uapplication.com

Licenza Creative Commons
i contenuti di questo sito sono coperti da Licenza Creative Commons