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Ovidio


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Publio Ovidio Nasone

--- Sulmona, Abruzzo 43 a.C. – Tomi, Mar Nero 17-18 d.C. ---

 

Vita.

Nascita e formazione. O. nacque da antica e agiata famiglia equestre (in un'elegia dei "Tristia", è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla sua vita). A Roma, ove si recò col fratello (31 a.C.), studiò grammatica e retorica presso insigni maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense e politica, O. avvertì invece subito imperiosa l'inclinazione verso la poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi ("et quod temptabam dicere versus erat").

L'incontro con Roma e con la poesia. Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene a 18 anni, il nostro rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore: fu dei "tresviri" ("capitales"?), e dei "decemviri stlitibus iudicandis", ma rimase pago dell'ordine dei cavalieri e non mirò al senato, alieno "sollicitae… ambitionis".

Ad alimentare la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio, Gallo (Virgilio lo intravide appena). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati ( da cui ebbe però una figlia), sposò una giovane fanciulla della "gens Fabia", che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere.

Il triste declino: "carmen et error" e "relegatio". Nell'8 d.C., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto (revocato neanche dal successore Tiberio), che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si trattò, è vero, di una "relegatio" che, a differenza dell’ "exilium", non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte.

gnoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due colpe che l'avrebbero perduto: "carmen et error". Nel "carmen" deve essere allusione all’ "Ars amatoria", il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col coevo programma augusteo di restaurazione morale dei costumi (ma evidentemente l'accusa mascherava più vere ragioni personali). Riguardo l’ "error", l'ipotesi più verosimile è che O. sia stato coinvolto - come testimone o addirittura complice - in uno scandalo di corte, che l'imperatore aveva tutto l'interesse a mantenere segreto: fatto è che, nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.

Opere.

Possiamo dividere comodamente la pur multiforme attività poetica di O. in tre momenti, che corrispondono ad altrettante fasi della sua vita [per un'analisi dettagliata delle singole opere, vd. oltre].

1. Al I periodo [ciclo della poesia propriamente elegiaca amorosa] appartengono le poesie erotiche, che cantano l'amore nella galante cornice della vita di Roma: gli "Amores", un canzoniere d'amore; le "Heroides", lettere di eroine ai loro infedeli amanti; l' "Ars amatoria", una precettistica dell'arte d'amare; i "Medicamina faciei femineae", un trattato di cosmetica; i "Remedia amoris", composti per aiutare a guarire dalle pene d'amore.

2. Al II periodo [ciclo della poesia epico-mitologica] appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio respiro, composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la celebrazione del principato: sono le "Metamorfosi", il poema delle trasformazioni, e i "Fasti", un poema che doveva illustrare il calendario romano, ma che fu interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi.

3. II III periodo [ciclo della poesia dell'esilio] comprende la composizione dei "Tristia" e delle "Epistulae ex Ponto", i canti della solitudine e della nostalgia, della noia e della disperazione.

Contenuti e analisi delle singole opere.

*"Amores". Gli "Amores", in 3 libri (una I ed. era però in 5 libri), furono composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione, dunque, intorno ai vent'anni.

Sono elegie che si strutturano in una sorta di romanzo amoroso, nel quale è cantata una donna, Corinna. Ma Corinna è uno pseudonimo (è il nome di una poetessa greca) forse di un personaggio puramente letterario, certamente lontanissimo dalle donne intensamente vagheggiate dagli altri poeti d'amore latini, e più verosimilmente vero e proprio filtro o simbolo delle galanterie amorose di O., in una Roma splendida, smaliziata e gaudente.

Amore come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta: corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma legate al momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente ottenuto, ma pronto a dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in questo gioco dei sentimenti, d'una arguzia gradevolmente ironica, che costituisce una delle note più gustose di questo suo disincantato mondo poetico. E’ una sequela di quadri, di scene di vita, che s'alternano a precetti d'amore, a casistiche varie, alle infinite situazioni che l'incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico elegiaco estremamente musicale, che segue con rara aderenza la materia trattata.

Ad alimentare la fantasia ovidiana è la precedente produzione elegiaca, con una serie di "luoghi comuni" (come il lamento davanti alla porta dell'amata, il servizio d'amore inteso come "milizia"...); è l'epigramma ellenistico d'amore, invece, che gli suggerisce variazioni su tema pressoché infinite; ma è anche, appunto, l'intera società romana, brillante e festosa.

Sorprendente, sin d'ora, è l'attitudine del poeta a scavare entro le pieghe riposte della psicologia femminile (la composizione delle "Heroides", vero capolavoro in questo senso, è forse contemporanea a quella degli "Amores").

Quella degli "Amores" è una poesia di una superficialità che incanta, che dell'amore sembra preferire i soli "esterni", in una società che tutta pare ridursi a vivere in un perenne gioco galante. Arte della variazione spinta al massimo, e non solo dal punto di vista letterario. O. non può, diremmo costituzionalmente, riconoscere un unico oggetto d'amore: tutte gli piacciono le belle romane, e a nessuna si sente di opporre resistenza. Sono, così, amori che iniziano e finiscono spesso là dove sono nati, che sembrano, nonostante le premesse e le promesse, esaurirsi in un'amabile corte (come in quella, impareggiabile, che il poeta rivolge a una gran bella donna, tutta gambe e sorrisi, che, accanto a lui, assiste alle corse dei carri nel Circo).

*"Heroides". Le "Heroides" (il nome in origine dovette però essere quello di "Epistulae heroidum", "Lettere delle eroine") sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare: le prime 14 sono lettere di eroine mitiche (Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Ipsipile a Giasone, Didone a Enea, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo); la 15a è l'unica lettera di un personaggio non mitologico, ma storico: quella della poetessa Saffo a Faone; le ultime 6, disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono lettere di eroi alle loro amate, seguite dalla risposta di queste (Paride a Elena, Leandro a Ero, Aconzio a Cidippe).

Domina, nelle epistole, la forma retorica della "suasoria", del discorso cioè che tende a "convincere qualcuno a compiere una determinata azione": in questo caso a ricambiare un amore. O. può ben vantarsi di avere, con le "Heroides", introdotto un genere nuovo nella letteratura antica, cioè l'epistola erotica in versi, anche se indubbio precedente era l'epistola properziana di Aretusa a Licota (due pseudonimi che però celavano personaggi reali, a differenza di O., che attinge dalla sfera del mito).

Il mito e la donna: è questo, insomma, il fulcro poetico dell'opera. Certo, non nel senso properziano dell'idealizzazione mitica della figura femminile: piuttosto, e al contrario, O. "umanizza" le antiche eroine. Le solenni vicende del mito rivivono, infatti, col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della Roma contemporanea, delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell'amore infelice, quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello della donna abbandonata, al quale s'affiancano numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci, e poi Catullo, Virgilio e Orazio.

Ad animare l'ampio materiale proveniente dalla letteratura precedente, è l'eccezionale capacità di O., erede, in questo, di Euripide, di penetrare negli intimi recessi dell'animo femminile, a sondarne i sentimenti pur attraverso ripetizioni, riprese, frasi dette e poi smentite, in un vortice di immagini ricche di sfaccettature e di risvolti imprevedibili. O., forte della sua preparazione retorica, si rivela maestro in quest'arte di andare a fondo di una situazione spirituale, di esaminarne, uno per uno, i possibili (e talora impossibili) esiti. Rischio (scongiurato dalla sua arte) di tale operazione poteva essere quello di ridurre ogni afflato sentimentale a una serie di giochi d'intelletto, di battute a freddo, in lunghi e sempre uguali monologhi di anime affrante.

Al centro, come detto, è la donna del mito, ma resa umana, quasi ridotta in frammenti di impulsi e di sensazioni: ed è proprio quest'arte di frantumazione del mondo sentimentale che consente a O. di gettare un fascio di luce su passioni anche scabrose, su segreti inconfessabili, su certi chiaroscuri che verranno ripresi e sviluppati dalla successiva letteratura imperiale. Così, le "Heroides" sono forse l'opera più "moderna" di O., in cui l'animo femminile si rivela con inedita verità.

Molto varie ne sono le vibrazioni sentimentali: la penetrante, straordinariamente "soffice" seduzione che Fedra vuole a tutti i costi esercitare su Ippolito, l'amato figliastro; la vanità, tanto intensa quanto puritana, di Elena che non vuol cedere, ma cede, a Paride; l'atmosfera "romantica" e le incantate sospensioni, paesistiche e sentimentali, che fanno da sfondo all'impossibile storia di Ero e Leandro; l'impossibile e scellerata la passione di Canace per il fratello Macareo, in una lettera densa di cupo pathos e presaga di morte; come quella, infine, di Laodamia a Protesilao.

*"Ars amatoria". L' "Ars amatoria", composta tra l’1 a.C. e l’'l d.C., consta di 3 libri in distici elegiaci. I primi due libri sono indirizzati agli uomini, ai quali O. insegna come incontrare, conquistare (1), conservare (II) l'amore di una donna; nel III, composto in un secondo momento, il poeta rivolge gli stessi consigli alle donne.

Il titolo (che forse opportunamente sarebbe da tradurre "Arte della seduzione") deriva dal primo verso dell'opera, e riecheggia - in modo quasi parodistico, certamente "rivoluzionario" - da un lato le coeve "artes oratoriae", dall'altro le "arti d'amare" dei filosofi greci.

Dunque, anche l' "Ars amatoria" si propone come un genere nuovo, laddove presenta, nella formale struttura "didascalica", i contenuti caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano. L'opera vuole essere, infatti, un vero e proprio trattato sui comportamenti d'amore, vera summa - e culmine - di tutta l'elegia latina precedente, una precettistica di galanteria erotica, condita di arguzie e piacevolezze. Di qui un contrasto sottile, che offre al poeta l'occasione per istituire un suo gioco, intellettualistico e ironico, su quell'eterno gioco che è l'amore (egli è "lascivi... praeceptor Amoris").

L'opera dispone, così, in maniera organica, quei precetti che più di una volta, anche se in forma isolata, erano già apparsi negli "Amores" (qualche spunto "precettistico" era del resto anche in Tibullo e in Properzio); ma è una precettistica molto poco austera, chè ogni situazione d'amore resta solo frivola avventura, arricchita da digressioni, gustosi riferimenti al mondo del mito o alla storia o alla leggenda (in alcuni "affreschi" mitici è già prefigurato quello che sarà il mondo delle "Metamorfosi"). Al di sopra di tutto, al di sopra dei luoghi comuni, dei consigli d'amore, delle scene di vita come degli squarci di mito, è la sorridente arguzia del poeta, che con arte suprema e impeccabile impegno formale ha creato un mondo in cui tutto sembra accordarsi - anche gli inganni, gli spergiuri e le astute simulazioni - in una superiore armonia. Sullo sfondo, ancora la Roma degli "Amores", una Roma fissata in un'atmosfera di magica luminosità, nelle cui vie affollate unica dominatrice sembra essere proprio la donna, con l'incanto delle sue apparizioni, con la gioia e il senso di vita che riesce a infondere.

Questo ovidiano è soprattutto un mondo di grazia e di eleganza, ove ognuno trova la propria dimensione in un impegno d'amore che è, sì, coinvolgente, ma che mai assorbe troppo sul serio: anche gli dèi e gli eroi sembrano farne parte (si pensino alla scena di Ulisse e Calipso che discutono sulla spiaggia; all'atmosfera di magica attesa in cui si risolve la tragica storia di Procri; alla festevole leggerezza con cui si dipana la vicenda di Bacco e Arianna).

*"De medicamine faciei". Anche il "De medicamine faciei" ("L'arte del trucco") è opera a suo modo precettistica: un trattatello di circa 100 versi, in metro elegiaco, che si divideva in due parti: la prima, una difesa dell'eleganza della vita di città, in confronto all'antica semplicità campagnola dei costumi; la seconda, una serie di 5 ricette di cosmetici che permettessero alle donne di conservare e rendere più attraente la loro bellezza.

*"Remedia amoris". Sempre in distici elegiaci (per un totale di circa 800 versi), i "Remedia amoris" - "Rimedi all'amore" - vogliono invece insegnare i mezzi (sono quasi "ricette") con cui curare gli effetti nefasti dell’amore, in particolare degli amori sfortunati. A ben vedere, essi sono una risposta scanzonata e pungente alle critiche che, da parte dei moralisti, erano state rivolte alla sua precettistica d'amor galante.

Con fine ironia, che vuole ripetere quella dell' "Ars", il poeta invita dunque 1'amante infelice a considerare i difetti dell'amata, a fuggire la solitudine e, insomma, a "distrarsi". Importante è poi ostacolare la mala passione quand'è all'inizio, prima che col tempo abbia modo di prender forza (non infrequenti, a tal proposito, sono i motivi desunti anche dalla topica filosofica d'ispirazione stoica). Amabile gioco, in definitiva, questo di O., che mostra di ritrattare, ma con infinito garbo, i suoi precedenti insegnamenti.

*"Metamorfosi". Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV"), il "poema delle trasformazioni", che O. iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata.

Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.

Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che O. deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci).

E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura.

L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua.

II poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum", un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico". Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, O. pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione.

Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. II poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito.

Dominano nell'opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé.

Della trasformazione, O. mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo.

La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di O., così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in O. il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto.

Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l'amore è dunque 1'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli "Amores" e nell’ "Ars", bensì l'amore del mito (come già nelle "Heroides"), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre i1 loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto.

Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che O., in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.

*"Fasti". Anche i "Fasti" sono opera narrativa, che vuole illustrare il calendario romano ("fasti" vale appunto "calendario"). Composti contemporaneamente alle "Metamorfosi", essi dovevano comprendere 12 libri (uno per ogni mese), ma furono come quelle interrotti, a causa della relegazione a Tomi: ne rimangono così i primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi che vanno da gennaio a giugno. Durante l'esilio, il poeta rivide l'opera, in particolare il I libro che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio adottivo di Tiberio.

I "Fasti" intendono dunque cantare, in distici elegiaci, le tradizioni romane nell'ordine in cui compaiono nel calendario latino. Opera organica, nei disegni del poeta, a differenza del referente prossimo, le "Elegie romane" di Properzio, che però avevano selezionato soltanto alcuni tra i miti antichi; e opera eziologica, come gli "Aitia" di Callimaco, dal momento che intento di O. è quello di spiegare le lontane origini di una festa, di un culto, di un nome. A tale scopo, il poeta utilizza sopra tutto l'opera erudita di Varrone e di Verrio Flacco, nonchè la storia di Livio (da notare che i Fasti, per la loro documentazione, restano tra l'altro testimonianza preziosa di antiquaria latina).

Per la composizione di un'opera che voleva cantare la religione romana, in sintonia col severo programma augusteo di restaurazione, O. mancava tuttavia di autentiche motivazioni interiori, tanto che quanto in essa c'è di vivo e vero è in contrasto con quelli che dovevano essere gli impegnativi intenti programmatici. Ai riti, alle feste, alle sacre istituzioni di Roma antica, O. s'accosta con spirito disincantato, ancora con quel gusto di raccontare proprio delle Metamorfosi, e con una curiosità tutta sorridente nei confronti del divino.

II poeta ha comunque il merito di aver come fissato e trasmesso ai secoli un'immagine concreta e verace di quella che a lui appariva la religiosità romana: sono squarci sapidi di vita, come la descrizione della festa in onore di Anna Perenna, una vecchia dea di Roma; o, ancora, sono rievocazioni di antichi personaggi della tradizione, vicende soprattutto di donne, presenti anche qui col loro fascino tipicamente ovidiano: Lucrezia, bella e onesta fino alla tragica fine; o Silvia, la vestale che commette l'errore di abbandonarsi sull'erba e di addormentarsi mentre un dio bramoso la compromette senza rimedio; o la naiade Lotide, che pur s'addormenta dopo una festa dedicata a Bacco, che tenta invano di possederla.

Ancora una volta il mito è dunque avvertito dal poeta in maniera cordiale, con un senso di confidente familiarità coi culti, i riti, gli dèi di Roma, che è poi la dimensione più vera dell'opera: basterebbe a documentarlo il gustoso colloquio che, all'inizio del IV libro, O. ha con Venere, condotto con spregiudicata grazia alessandrina.

*Le opere dell'esilio. La produzione ovidiana dell'esilio comprende 5 libri di "Tristia" ("Tristezze") 4 libri di "Epistulae ex Ponto" ("Lettere dal Mar Nero"), tutti in distici elegiaci. I "Tristia" furono scritti tra l'8 e il 12 d.C.; la composizione dei primi 3 libri delle "Epistulae ex Ponto" risale invece al 12 (il IV libro, più lungo, fu pubblicato postumo).

La struttura differente delle due opere è solo esteriore: i nomi delle persone cui sono dirette le elegie dei "Tristia" sono stati occultati - eccetto quelli della moglie e della figliastra Perilla - forse per non compromettere i corrispondenti con un uomo di recente "relegato"; invece, i nomi dei dedicatari cui sono indirizzate le "Epistulae" sono citati.

E forse, i "Tristia" hanno anche un'organizzazione più definita: nel I libro è contenuto il doloroso distacco da Roma; il II è costituito da un'elegia sola, di 600 versi, diretta ad Augusto, a discolpa del famigerato "carmen" e per invocare almeno un luogo di relegazione meno triste e lontano; gli altri 3 libri trattano dell'innominato "error", e non sono indirizzati direttamente ad Augusto, bensì destinati al pubblico romano (col già accennato accorgimento dell'anonimato), per creare nell'aristocrazia senatoria una corrente favorevole al proprio ritorno.

Per il resto, i contenuti delle due opere sono sostanzialmente identici, se non monotoni: la solitudine e i lamenti dell'esule; la desolazione che lo circonda; il rimpianto di Roma e della vita mondana, rimpianto che, rinnovato, non fa che acuire lo strazio; l'adulazione, spesso insistente, nei confronti del principe nella speranza, inutile, che possa finalmente richiamarlo da una terra lontana quanto barbara, ove la vita è sempre ugualmente grigia e le giornate interminabili.

Certo, sono elegie, queste dell'esilio, disuguali, che troppo spesso ripiegano su stanchi luoghi comuni. Eppure, lo stesso O. era conscio dei difetti di questi suoi componimenti: in un passo toccante, invita il lettore a volerli comprendere e giustificare, considerando le circostanze che ne avevano accompagnato la composizione: solo per un conforto egli si dedica alla poesia, fidando nel suo potere consolatorio, e non per trarne gloria. Nella lontananza da Roma (indimenticabile ne è l'addio in trist. 3, 12), separato ormai da quella società e da quel pubblico cui l'aveva legato un rapporto simbiotico di gioia e vitalità, O. scopre l'essenzialità del dolore, mentre la sua stessa esperienza umana e poetica si scarnifica nella solitudine e nella nostalgia: l'espressione poetica accompagna, cioè, questo processo di scavo interiore che, col tempo, si fa sempre più asciutto e sconsolato.

Ridotto ormai - poeta che aveva scandagliato in ogni senso l'intimo delle sue eroine - a scavare entro se stesso, O. ci ha lasciato, con la X elegia del IV libro dei Tristia, prima di morire, una confessione che è anche bilancio di tutta una vita e di un'eccezionale esperienza artistica.

*Altre opere. Al periodo dell'esilio risale pure il poemetto "Ibis", in distici elegiaci, rivolto contro un ignoto avversario del poeta, che a lui augura ogni male, attingendo da esempi tratti dal mito e dalla storia. Il titolo, che allude a un uccello egiziano cui gli antichi attribuivano immondi costumi (si cibava di rettili e di rifiuti), riprende quello, identico, di un poemetto da Callimaco diretto contro Apollonio Rodio.

Possediamo, poi, un lungo frammento di 134 esametri di un poemetto sulla pesca e sui vari tipi di pesci, ricordato da Plinio il Vecchio col titolo di "Halieutica" (cioè "Piscatoria"): soprattutto per motivi metrici si dubita possa essere autentico.

E ancora, ci restano 5 esametri di un poema astronomico ("Phaenomena") e 2 versi di una tragedia, "Medea", che dovette avere enorme fortuna nel I sec. d.C.

Niente, invece, ci rimane di altre opere, come il poema epico "Gigantomachia", composto in gioventù, un epitalamio per le nozze di Paolo Fabio Massimo, un carme in onore di Augusto, scritto addirittura in lingua getica, la lingua del luogo di "relegazione".

Non possono essere attribuiti a O., infine, né il poemetto "Nux" (un albero di noce si lamenta delle sassate che riceve), né la "Consolatio ad Liviam", composta in occasione della morte di Druso (9 a.C.).

Conclusioni.

O., vero poeta della Roma del suo tempo, <<realizza una sua [originale] letteratura dell'immaginario e del misteriosofico: non curò la pensosità filosofica di Lucrezio, giacché, a proposito delle origini del mondo, si rivela un "superficiale" narratore di miti; non l'innovativa sensibilità di Catullo; non la rappresentazione dell'arcano di Virgilio e di Tibullo; non infine la sana ironia di Orazio. O. compie il miracolo dell'affabulazione e rappresenta le cose in divenire, le persone nel mistero dei sentimenti: fu sempre poeta pronto a replicare con la sua grande teoria della icasticità immaginaria.

Sono caratteristiche [invece] in lui la prontezza del verso, la fluidità e il ritmo della metrica, le riflessioni gnomiche, le ridondanze di espressione, il gioco delle figure e dei colori, il modo retorico che raffina la mancanza della lima. E' O., infine, a dare la definitiva sistemazione al distico elegiaco, venuto a perfezione attraverso l'opera dei suoi predecessori, soprattutto Tibullo.>> [G. Fiordelisi]


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