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 L'opera filosofica e il pensiero. 
              L'antiepicureo 
              Cicerone fu filosofo che compose molti libri, scritti in 
              gran parte nell'arco di due anni, tra il 46 e il 44 a.C., 
              quando la vittoria di Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla 
              vita politica e la morte della figlia Tullia lo spinse a cercare 
              nella filosofia una medicina dell'animo.
 Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche 
              della prima metà del primo secolo a.C.; nel momento in cui 
              venne costretto a un ozio forzato, egli scrisse di filosofia, ma 
              anche allora per lui la politica rimase la dimensione fondamentale 
              della vita. Infatti, una delle ragioni della sua condanna dell'epicureismo 
              è anche l'apoliticità di questa scuola. I contenuti 
              degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi 
              rispetto a quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca; egli, 
              infatti, condivide con buona parte degli uomini colti del 
              suo tempo l'idea che le alternative filosofiche fondamentali siano 
              già date. Il problema non è dunque quello 
              di trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche, in base alle quali 
              organizzare la propria vita, la tradizione filosofica ha già 
              provvisto a costruire queste basi. Si tratta soltanto di 
              saggiarle e renderle operanti, oltre che preliminarmente accessibili 
              ad un pubblico di lingua latina. Di qui l'importante lavoro linguistico 
              compiuto da Cicerone, al quale la tradizione filosofica 
              occidentale deve l'introduzione di termini come moralis, qualitas, 
              notio e così via. Lo strumento letterario di cui Cicerone 
              si avvale nella sua opera di diffusione della filosofia greca non 
              è la poesia, ma il dialogo. Esso gli consente di esporre 
              argomentazioni opposte, pro e contro una determinata tesi. Così 
              avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici, 
              che ci sono giunti incompleti, per i problemi fisico/teologici in 
              Sulla natura degli dei, Sulla 
              Divinazione, Sul fato, e, 
              per quelli etici, nelle Dispute tusculane 
              e Sui termini estremi dei beni e dei mali. 
              Il modello è dato dalla pratica giudiziaria, nella quale 
              le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici.
 
 Il pubblico a cui Cicerone si rivolge è il giudice che deve 
              pronunciare il verdetto, dopo aver ascoltato le argomentazioni pro 
              e contro presentate dai protagonisti del dialogo. Si tratta della 
              tecnica di discussione tipica dell'Accademia 
              scettica, da Arcesilao a Carneade, che anche Cicerone 
              fa propria, in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento 
              libero. Le altre scuole filosofiche, soprattutto la stoica 
              e l'epicurea, 
              chiedono ai loro adepti un asservimento totale nei confronti del 
              patrimonio dottrinale della scuola; la filosofia dell'Accademia, 
              invece, lascia liberi, secondo Cicerone, di formulare il giudizio 
              dopo aver ascoltato le parti contendenti. Solo al confronto 
              tra tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che 
              sia almeno vicino al vero, ossia il probabile, ciò che può 
              essere saggiato e approvato. Sullo sfondo di queste tesi 
              si staglia la figura del romano di ceto elevato, che non può 
              asservirsi ai dettati di una scuola né praticare la filosofia 
              come un'attività professionale in competizione con dei rivali. 
              All'autorità della scuola, Cicerone oppone il giudizio libero, 
              corroborato dalla tradizione romana e dai valori impliciti in essa 
              : i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i veri 
              arbitri in Roma, in filosofi liberi dai vincoli di scuola. Diversa 
              appare l'impostazione degli scritti ciceroniani Sulla 
              repubblica e Sulle leggi, 
              pervenuteci incompiuti, e della sua ultima opera Sui 
              doveri, ove, anzichè presentare e discutere 
              tesi contrapposte, si espongono dottrine positive sulla preferibilità 
              della costituzione mista, sulle leggi, sulle varie occupazioni confacenti 
              alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società. 
              Ma in queste opere, che pure attingono al patrimonio concettuale 
              dei filosofi, soprattutto di Platone, 
              domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori. In questo caso 
              non c'è più spazio per tesi contrapposte; occorre 
              invece far emergere l'immagine totalmente positiva dei costumi antichi 
              e della concordia tra i ceti, cardini della grandezza di Roma oltre 
              che modello e programma politico anche per il presente.
 
 Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi romani, come Catone 
              o Scipione, diventano eroi filosofici : non è necessario 
              essere filosofi di professioni per non temere la morte. A proposito 
              dell'attività politica del popolo romano nel suo complesso, 
              essa è rappresentata nella Repubblica come una"sapientia"che 
              si è realizzata in leggi e istituzioni, più che in 
              parole, come era avvenuto in Grecia. Lo scritto Sui doveri, 
              poi, si presenta come una sorta di lunga lettera indirizzata al 
              figlio Marco, con esplicito intento pedagogico. Qui Cicerone, ispirandosi 
              in parte a Panezio, 
              si appropria di una forma rielaborata e addolcita di stoicismo, 
              spogliata dai paradossi tipici di questa scuola. Egli sostiene 
              che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana 
              non è possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni 
              scettiche, tanto meno contrapporsi ai valori diffusi; la soluzione 
              più adeguata gli appare consistere in un giusto contemperamento 
              di virtù e utilità.
 
 Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell'Arpinate. 
              Innanzitutto, va detto che gran parte dell'opera di Cicerone è 
              pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio 
              tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione 
              dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale dell'Arpinate 
              si profila una società attraversata da spinte contrastanti, 
              spesso laceranti : l'afflusso di ricchezze dai paesi conquistati 
              ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità 
              delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori 
              che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa 
              sopravvivenza dello stato repubblicano. D'altronde lo scopo 
              stesso delle sue opere filosofiche è dare una solida base 
              ideale, etica, politica a una classe dominante (gli optimates) il 
              cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui 
              il rispetto per la tradizione nazionale (mos maiorum) non impedisca 
              l'assorbimento della cultura greca; una classe che l'assolvimento 
              dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un 
              otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di 
              quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine 
              di humanitas.
 
 Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un'ottica di parte, legata 
              al progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i 
              ceti possidenti) : egli è fermamente contrario a qualsiasi 
              progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei 
              debiti, Cicerone scorge la via d'uscita dalla crisi che minaccia 
              la repubblica nella concordia dei ceti abbienti, senatori e cavalieri 
              (concordia ordinum). La sua, in fin dei conti, è e rimane 
              una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però, 
              Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia 
              dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio 
              ed equestre, la concordia ordinum si era rivelata fallimentare: 
              Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium 
              bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone 
              agiate e possidenti, amanti dell'ordine sociale e politico, pronte 
              all'adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della 
              famiglia. Il dovere dei boni è quello di non rifugiarsi 
              egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a 
              discapito di quelli pubblici: essi devono fornire un sostegno attivo 
              agli uomini politici che rappresentano la loro causa.
 
 Il progetto di concordia dei ceti abbienti, nelle due diverse formulazioni 
              che Cicerone ne diede, significò in ogni caso un tentativo 
              almeno embrionale (è ovvio che i boni preferirono in ogni 
              caso tutelare i propri interessi) di superare in nome del superiore 
              interesse della collettività, la lotta tra i gruppi e le 
              fazioni all'epoca dominanti la scena politica romana. Tuttavia il 
              pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni: da 
              tempo si dibatteva in Grecia se l'oratore dovesse accontentarsi 
              della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse 
              invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto, della 
              filosofia e della storia.
 
 In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, 
              un trattatello di retorica, il De inventione 
              (inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell'oratore). 
              Un interesse particolare riveste il proemio, dove il giovane avvocato 
              si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia (cioè 
              cultura filosofica), quest'ultima ritenuta necessaria alla formazione 
              della coscienza morale dell'oratore: l'eloquenza priva di sapientia 
              ha portato più volte gli stati in rovina. La soluzione ciceroniana 
              è pensata esplicitamente per la società romana: molti 
              anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore, una 
              delle sue opere"più curate". Composto nel 55, durante 
              un periodo di ritiro dalla vita politica, mentre Roma era travagliata 
              dalle bande di Clodio e di Milone, è ambientato nel 91, al 
              tempo dell'adolescenza di Cicerone; sotto forma di dialogo (sulle 
              orme di Platone) 
              vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell'epoca, 
              fra i quali spiccano Marco Antonio (143 - 87 a.C.), nonno del triumviro 
              che fece uccidere l'Arpinate, e Lucio Licinio Crasso, portavoce 
              del pensiero di Cicerone stesso. Nel I libro Crasso sostiene, per 
              l'oratore, di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone 
              l'ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui 
              arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica 
              del foro e sulla dimestichezza con l'esempio degli oratori precedenti. 
              Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche, 
              ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio (la raccolta 
              di materiale), la dispositio (l'organizzazione del materiale) e 
              la memoria (l'insieme delle tecniche per memorizzare i concetti). 
              Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, 
              al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle 
              arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni 
              relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere 
              all'actio (recitazione) dell'oratore, non senza ribadire la necessità 
              di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. La 
              scelta del 91 per l'ambientazione del dialogo ha un preciso significato 
              : è l'anno stesso della morte di Crasso e precede di poco 
              la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario (l'homo 
              novus) e Silla, nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni 
              altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. 
              La crisi dello stato è un'ossessione incombente su tutti 
              i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l'ambiente sereno 
              e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni, 
              la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza della terribile 
              fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica 
              ai proemi che precedono i singoli libri. Cercando di conservare 
              la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, 
              Cicerone si è sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi 
              giorni di pace dell'antica repubblica. Il modello a cui si ispira 
              è sostanzialmente quello del dialogo platonico: con gesto 
              aristocratico, alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia 
              sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano. 
              A sintetizzare la tesi principale di tutta l'opera potrebbe valere 
              un'espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo :"non 
              l'eloquenza è nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica 
              dall'eloquenza". Si richiede quindi una vasta preparazione 
              culturale (soprattutto filosofica - morale) all'oratore : bisogna 
              che egli sia versatile, abile a sostenere il pro e il contra su 
              qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare 
              il proprio uditorio; ma questo di per sè non basta : il tutto 
              deve essere accompagnato dalla virtus, la quale deve mantenere l'intero 
              sistema oratorio ancorato all'apparato dei valori tradizionali, 
              in cui la"gente perbene"si riconosce. Crasso insiste 
              perché probitas (integrità) e prudentia (saggezza) 
              siano saldamente radicate nell'animo di chi dovrà apprendere 
              l'arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù 
              sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati. 
              La formazione dell'oratore viene quindi a coincidere con quella 
              dell'uomo politico della classe dirigente. Egli dovrà servirsi 
              della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn 
              proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni.
 
 Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore 
              in un trattato più esile, l'Orator, 
              aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando 
              il ritratto dell'oratore ideale (come Platone 
              aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico), l'Arpinate 
              sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare 
              (argomentare la propria tesi), delectare (produrre un effetto 
              piacevole sull'uditorio), flectere (muovere le emozioni 
              tramite il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici 
              che l'oratore dovrà sapere alternare : umile, medio, e elevato 
              o"patetico". Nel 44, poi, Cicerone compone i Topica, ispirati 
              all'opera omonima di Aristotele, 
              i quali trattano dei topoi, i luoghi comuni ai quali può 
              far ricorso l'oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare 
              nel discorso. Ma possono farvi ricorso anche i filosofi, gli storici 
              e i giuristi.
 
 Il modello del dialogo platonico ritorna poi, con maggiore evidenza, 
              nel De re publica, al quale Cicerone si 
              dedicò assiduamente fra il 54 e il 51. Non cercò, 
              tuttavia, di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone 
              aveva fatto nella sua"Repubblica": con gesto che gli diventava 
              sempre più consueto, l'Arpinate si proiettò nel passato, 
              per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana 
              del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa 
              suburbana di Scipione Emiliano, che con l'amico e collaboratore 
              Lelio è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione 
              della trama è purtroppo resa fortemente ipotetica, soprattutto 
              per alcune sezioni, dalle condizioni estremamente frammentarie in 
              cui il dialogo ci è stato conservato. Nel I libro Scipione 
              parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di 
              governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria 
              degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente della tirannide, 
              della oligarchia e della olocrazia (governo della "feccia" 
              del popolo). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores (gli 
              antenati) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il 
              fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l'elemento 
              monarchico si rispecchia nell'istituzione del consolato, l'elemento 
              aristocratico nell'istituzione del senato, l'elemento democratico 
              nell'istituzione dei comizi. Il libro II si occupa della costituzione 
              romana, mentre il III tratta della iustitia, ed è in larga 
              parte dedicato a un tentativo di confutazione dell'acutissima critica 
              che l'accademico Carneade aveva svolto dell'imperialismo romano 
              : la critica si incentrava soprattutto sul concetto di "guerra 
              giusta", ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere 
              i loro alleati, (cioè sudditi) in difficoltà, avevano 
              progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria 
              sfera d'influenza. Il IV libro si occupa dell'educazione dei cittadini 
              e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri 
              IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei 
              publicae (rettore e governatore dello stato) o princeps. Nel VI 
              libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione 
              l'Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l'avo, 
              Scipione Africano, per mostrargli, dall'alto del cielo, la piccolezza 
              e l'insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, 
              e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell'aldilà 
              le anime dei grandi uomini di stato: questa parte, che costituisce 
              la sezione finale dell'opera, va generalmente sotto il nome di Somnium 
              Scipionis. La teoria del regime misto cui si appella 
              Scipione risaliva agli stessi Platone 
              (vedi le Leggi) 
              e Aristotele. 
              Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre 
              in inganno: il singolare si riferisce al "tipo" dell'uomo 
              politico eminente, non alla sua unicità (come invece sarà 
              invece per Machiavelli); 
              in altre parole, l'Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta 
              di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei 
              boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello 
              di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione 
              Emiliano. Il princeps dovrà armare il proprio animo 
              contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio 
              di potere e di ricchezza: è questo il senso del disprezzo 
              verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori 
              dello stato. Cicerone disegna così l'immagine di un dominatore 
              - asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato 
              nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia 
              verso le passioni umane. L'ideale ciceroniano era tuttavia 
              difficilmente realizzabile: probabilmente proprio la convinzione 
              della necessità di un governo di maggiore autorevolezza, 
              e d'altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l'accentramento 
              di enormi poteri nelle mani di pochi capi, spinsero Cicerone a tentare 
              un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri, nella speranza di mantenere 
              l'operato sotto il controllo del senato.
 
 Ispirandosi ancora al modello di Platone, 
              che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, l'Arpinate completò 
              il dialogo sullo stato col De legibus, 
              iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita. 
              L'azione stavolta non è posta in un'epoca passata, ma nel 
              presente, e interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto, 
              e il grande amico Attico. L'ambientazione è nella villa di 
              Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti, raffigurati 
              secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo 
              modello soprattutto nel Fedro di Platone. 
              Quinto è tratteggiato come un ottimate estremista, Cicerone 
              come un conservatore moderato, Attico come un epicureo 
              che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche. Nel libro I 
              Cicerone espone la tesi stoica 
              secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma 
              si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò 
              data da Dio. Nel libro II l'esposizione delle leggi che dovrebbero 
              essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione 
              utopica (alla Platone) 
              ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento 
              nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro III Cicerone presenta 
              il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze. 
              In gioventù l'Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi 
              più diversi, e ad interessarsi di filosofia continuò 
              per tutta la vita: a scriverne, tuttavia, iniziò solo nel 
              46, con l'operetta sui Paradossi degli Stoici, dedicata a Marco 
              Bruto e incentrata soprattutto sull'esposizione delle tesi stoiche 
              maggiormente in contrasto con l'opinione comune.
 
 Ma è nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera 
              incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di 
              Cicerone, quali la morte della figlia Tullia. L'Hortensius, 
              perduto, era un'esortazione alla filosofia, sul modello del Protrettico 
              di Aristotele. 
              Gli Academica, che trattavano i problemi gnoseologici, ebbero una 
              duplice redazione: la prima, i cosiddetti Academica 
              priora, in due libri; la seconda, gli Academica 
              posteriora, in quattro libri.
 
 Il De finibus bonorum et malorum (I limiti 
              del bene e del male) è da alcuni considerato il capolavoro 
              filosofico di Cicerone: tratta questioni etiche, e cioè il 
              problema del sommo bene e del sommo male, che è affrontato 
              in 5 libri, comprendenti 3 dialoghi. Nel primo è esposta 
              la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione ciceroniana; 
              nel secondo si mette a confronto la teoria stoica 
              con le teorie accademica e peripatetica; nel terzo è esposta 
              la teoria eclettica di A. Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, 
              la più vicina al pensiero dell'autore.
 
 Ancora di questioni etiche tratta un'altra fra le maggiori opere 
              filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata, le Tusculanae 
              disputationes, dedicate anch'esse a Bruto e ambientate 
              nella villa di Cicerone a Tuscolo. L'opera, in 5 libri, che segna 
              il massimo avvicinamento dell'Arpinate alle tesi propugnate dagli 
              stoici, è condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un 
              anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente 
              i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti 
              dell'animo e della virtù come garanzia della felicità 
              : siamo dunque di fronte ad una grande summa dell'etica antica. 
              Nelle Tusculanae l'Arpinate cerca una risposta ai suoi personali 
              interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione 
              emotiva dell'autore agli argomenti trattati.
 
 Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi, il De 
              natura deorum, in 3 libri, anch'esso dedicato a Bruto; 
              il De divinatione, in 2 libri, e il De 
              fato giuntoci incompleto. Le due ultime opere sono 
              presentate esplicitamente dall'autore come integrative e complementari 
              rispetto alla prima. Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando 
              tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche. 
              L'impegno ciceroniano nell'attività filosofica è soprattutto 
              moralistico, e non dimentica i doveri del cittadino al servizio 
              dello stato. Interessante in questi dialoghi è il ricercare 
              sempre la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione 
              e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche 
              : si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico 
              per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa 
              nei confronti della società romana.
 
 In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì, 
              nei suoi anni maturi, al probabilismo degli Accademici, 
              una sorta di scetticismo pragmatico, che senza negare l'esistenza 
              di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente 
              di garantire la possibilità di una conoscenza probabile, 
              utile a orientare l'azione e ad essa funzionalizzata. Nel 
              libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere 
              la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere 
              l'esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni : se tutto 
              è opinabile, allora non vi sarà più né 
              certezza né verità. L'Arpinate replica che anche un 
              dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità; 
              nemmeno pensa, come gli scettici che esistano più verità. 
              In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo 
              che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza: 
              astenendosi egli stesso dal formulare un'opinione precisa, si sforza 
              di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto 
              per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. 
              L'eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un 
              metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine 
              un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa 
              ideologia della humanitas, alla cui elaborazione l'Arpinate diede 
              un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale 
              di aperta tolleranza: dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande 
              apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino 
              mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro 
              turno per prendere la parola: siamo insomma di fronte ad una cerchia 
              ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle 
              loro un arricchimento culturale.
 
 Ma c'è un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, 
              pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti 
              e indignati: l'eclettismo ciceroniano, come già anticipato, 
              mostra una chiusura radicale verso l'epicureismo, alla cui esposizione 
              e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De 
              finibus bonorum et malorum. I motivi dell'avversione ciceroniana 
              verso l'epicureismo sono soprattutto due, tra loro strettamente 
              connessi : in primo luogo la filosofia epicurea 
              porta al disinteresse per la vita politica ("vivi di nascosto" 
              era il loro motto), mentre dovere dei boni è l'attiva partecipazione 
              alla vita pubblica; inoltre l'epicureismo esclude la funzione provvidenziale 
              della divinità (per quanto non ne neghi l'esistenza) e indebolisce 
              così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone 
              rimane la base fondamentale dell'etica. Va poi detto che l'Arpinate 
              vedeva negativamente la ricerca del piacere (voluptas) propugnata 
              dagli epicurei, i quali non esitavano a collocarla tra le somme 
              virtù : ora è evidente che se ogni cittadino vivesse 
              "di nascosto" alla ricerca del piacere personale lo stato 
              si sfascerebbe; inoltre mettere la voluptas tra le virtù 
              è come mettere una prostituta tra signore per bene, dice 
              Cicerone. Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso 
              dei dialoghi di argomento religioso e teologico. Nel De natura 
              deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea 
              dell'indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane. Successivamente 
              viene presa in esame la tesi stoica 
              del panteismo provvidenziale, mentre in uno dei libri successivi 
              (il III) l'Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico.
 
 Più interessante risulta il De divinatione, anche 
              perché legato a vicende più contemporanee a Cicerone, 
              che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione 
              tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare 
              il dominio sui ceti inferiori. Tornando al De finibus bonorum 
              et malorum, Cicerone, dopo aver confutato la tesi epicurea, 
              esamina quella stoica 
              : riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più 
              solide all'impegno dei cittadini verso la collettività, ma 
              tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico 
              gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana. 
              Cicerone, invece, apprezza le tesi scettiche: la verità è 
              per lui irraggiungibile, e l'uomo si può solo avvicinare 
              ad essa applicando la virtus; l'eclettismo ciceroniano non a caso 
              si basa su ideali scettici: dato che la verità è irraggiungibile, 
              tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da 
              ognuna di esse il meglio.
 
 Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il 
               Cato maior de senectute e il Laelius 
              de amicitia. Nel Cato maior de senectute Cicerone 
              trasfigura l'amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento 
              fisico e all'imminenza della morte, sembra soprattutto temere la 
              perdita della possibilità di intervento politico. Tuttavia 
              Cicerone, immedesimandosi nell'austera figura di Catone il Censore, 
              tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta 
              il gusto per l'otium e la tenacia dell'impegno politico, due opposte 
              esigenze che l'Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto 
              l'arco della sua vita. Diversa, più combattiva, è 
              l'atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia, il quale, all'indomani 
              dell'uccisione di Cesare, accompagna il rientro di Cicerone sulla 
              scena politica. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129, 
              lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa 
              di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura 
              dell'amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori 
              sul valore e sulla natura dell'amicizia stessa. Amicitia 
              per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a 
              scopo di sostegno politico. Nascendo dal tentativo di superare la 
              tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato 
              aristocratico, il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti 
              etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà 
              degli amici. La novità dell'impostazione ciceroniana 
              consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle 
              amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: 
              a fondamento dell'amicizia sono posti valori come virtus e probitas 
              riconosciuti a vasti strati della popolazione. L'amicizia propagandata 
              da Lelio non è solo un'amicizia politica: si avverte in tutta 
              l'opera un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, 
              preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, 
              potè forse trovare solo in Attico.
 
 La stesura del De officiis venne iniziata 
              probabilmente nell'autunno del 44: si tratta stavolta di un trattato, 
              non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di 
              filosofia ad Atene. L'opera è il prodotto di un'elaborazione 
              rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di 
              alcune delle Filippiche: mentre sta combattendo colui che ai suoi 
              occhi sta portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone 
              cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, 
              indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana 
              che permetta all'aristocrazia di riacquistare il pieno controllo 
              della società. La base filosofica viene offerta dallo stoicismo 
              moderato di Panezio. 
              Nel De officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai 
              giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in 
              generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. I 
              3 libri di cui il De officiis è composto trattano rispettivamente 
              dell'honestum, dell'utile e del conflitto tra di loro. Lo stoicismo 
              di Panezio 
              si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio 
              assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio: 
              le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da 
              essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali. 
              La virtù fondamentale per Panezio 
              era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla 
              prima spetta di "dare a ciascuno il suo", la seconda ha 
              il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità 
              e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi 
              del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio 
              corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, 
              che, attraverso gli officia e l'elargizione nei confronti dei concittadini, 
              sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle 
              più alte cariche dello stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza 
              può causare seri problemi: può essere strumento di 
              corruzione, infatti, il donare denaro oppure l'effettuare benefici 
              ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l'Arpinate sottolinea 
              con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle 
              ambizioni personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza 
              Panezio 
              aveva sostituito la grandezza d'animo; ebbene, Cicerone riprende 
              questa concezione, ma, paradossalmente, a fondamento della magnitudo 
              animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti 
              i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere.
 
 ...:::Diego Fusaro:::...
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