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              Vita e opera. Della 
              vita di Tito Lucrezio Caro rimane poco o nulla: 
              due righe di san Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, 
              entrambi ideologicamente avversi alla dottrina epicurea e, perciò, 
              quantomeno da considerare con ponderatezza.  
              Si è solitamente propensi a collocare la sua nascita tra 
              il 98 e il 96 a.C. e la sua morte nel 55. Il silenzio su questo 
              grande poeta e filosofo, che dovette provocare comunque un certo 
              scalpore nella Roma di allora, è tuttavia emblematico della 
              stigmatizzazione che dovette subire il De rerum natura, 
              lontano com'era sia dagli allora in voga poetae novi di ispirazione 
              alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall'esaltazione 
              della politica attiva o della guerra fatta da Catilina e Cesare. 
               
              Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario, 
              probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla 
              sua opera e dal modo in cui si rivolge all'aristocratico Memmio 
              non si riesce però ancora a capire se fosse anch'egli un 
              aristocratico oppure un liberto) e altrettanto probabilmente trascorse 
              una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi 
              del "De rerum natura". Va, tuttavia, respinta la teoria 
              di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata 
              da un filtro d'amore: si pensa infatti che l'accusa sia 
              nata nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa 
              del nostro poeta. 
               
              L'Epicureismo a Roma. 
              A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura 
              e il pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel 
              mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del 
              pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non 
              a caso Cicerone trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina 
              di Epicuro: l'epicureismo era visto come una dottrina che 
              portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto 
              perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva 
              i cittadini dall'impegno politico per la difesa delle istituzioni. 
              Inoltre l'epicureismo, negando l'intervento divino negli affari 
              umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale 
              non poteva più usare la religione come strumento di potere. 
              Poco si conosce riguardo la penetrazione dell'epicureismo nelle 
              classi inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni 
              dell'epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla facilità 
              di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi 
              contenuti.  
              Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, Lucrezio scelse la forma 
              del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione 
              nell'agire di Lucrezio: se da un lato condanna la poesia per la 
              sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare 
              infelicità agli uomini, dall'altro ne fa uso per divulgare 
              i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da Lucrezio, 
              così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si 
              è pensato di dover spiegare anche l'atteggiamento di Cicerone 
              nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non poteva accettare 
              gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l'eccezionalità 
              della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di 
              Lucrezio nella sua polemica all'epicureismo. 
               
              La filosofia di Lucrezio. 
              *Religio: Il De rerum natura si apre con l'invocazione 
              a Venere, dea dell'amore, unica a poter placare la sete di sangue 
              di Marte, dio della guerra: Lucrezio vive i turbolenti anni della 
              rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle 
              ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla 
              pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe 
              politica romana. La via che Lucrezio trova per affrontare i mali 
              della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo 
              della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione 
              e prende coscienza dello stato umano. All'inizio del poema Lucrezio 
              invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che 
              egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al contrario, 
              sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema 
              ne è il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata 
              dal padre per ingraziarsi gli dèi, o anche l'immolazione 
              del vitellino e la descrizione della madre che lo cerca, disperata): 
              la religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita 
              di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura: 
              ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più 
              nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa 
              e dei timori che essa comporta. Si vede, quindi, già dai 
              primi versi come Lucrezio offra un nesso tra superstizione religiosa, 
              timore della morte e necessità di una speculazione scientifica 
              per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi timori nascono 
              dall'ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo. Con 
              parecchi secoli di anticipo su Marx, Lucrezio si accorge che la 
              religione è l' 'oppio del popolo', e ha portato l'uomo a 
              compiere azioni imperdonabili. L'accesa lotta alla religio è 
              certamente la parte piú eterodossa della filosofia di Lucrezio: 
              Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava piuttosto 
              un ritorno ad un culto piú semplice. Lucrezio si scaglia 
              con ardore contro la religione, contro quella meschina invenzione 
              umana che 'potè suggerire tanto male' (tantum potuit suadere 
              malorum) e che con Epicuro si è trovata 'calpestata' (religio 
              pedibus subiecta). I timori degli uomini di fronte alla 
              morte e alla religione sono del tutto vani e analoghi alla 
              paura dei bambini di fronte al buio. 
               *Natura: Per insegnare agli uomini come la dottrina 
              epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere cioè 
              la paura per morte, malattia, dolore e dei, Lucrezio inizia la sua 
              descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è 
              formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina 
              rerum o genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare 
              il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo 
              è formato da atomi, e cosí persino l'animo umano; 
              ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; 
              solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo 
              mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle 
              elementari, c'è comunque spazio per la libertà: all'origine 
              dell'universo c'è una deviazione del moto atomico, un clinamen, 
              che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito 
              della natura. 
              *Morte: Dopo aver descritto la natura della materia 
              l'autore invita i suoi lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare 
              la morte come qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all'uomo: 
              quando noi siamo non c'è morte, quando c'è la morte 
              noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l'uomo 
              dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo 
              stupide ambizioni (E tu esiterai, e per di piú t'indignerai 
              di dover morire? Tu cui è morta la vita mentre ancora sei 
              vivo e vedi e consumi nel sonno la parte maggiore del tempo, e pure 
              da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l'animo tormentato 
              da vane angosce, né riesci a scoprire qual sia cosí 
              spesso il tuo male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni 
              parte gli affanni e vaghi oscillando nell'incerto errare della mente 
              - III, vv. 1045-1052). 
               *Sensi e amore: Il IV libro tratta dei sensi, 
              della loro veridicità, di come possano essere turbati. I 
              sensi, per Lucrezio, non fanno altro che captare dei flussi atomici 
              particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre 
              orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. 
              È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e 
              la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma 
              anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare 
              nei sensi (IV, vv. 507-8). Anche stavolta, dopo aver cercato di 
              trasmette l'atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma 
              del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú 
              può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui 
              dedica i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio: Brucia l'intima 
              piaga (l'amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni 
              l'ardore, l'angoscia ti serra, se non confondi l'antico dolore con 
              nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d'instabili 
              amori, e ad altro tu possa rivolgere i moti dell'animo (vv. 1068-1073); 
              Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti 
              ondeggiamenti l'ardore degli amanti che non sanno di cosa prima 
              godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la creatura 
              che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono 
              a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché 
              il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono 
              a straziare l'oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di 
              quella furia (vv. 1076-1083). Dopo aver condannato l'amore come 
              sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv. 1079-1083), amarezza (v. 
              1134), rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e segg.), cecità 
              (v. 1153), miseria (v. 1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179), Lucrezio 
              cambia tono: "È proprio lei che talvolta con l'onesto 
              suo agire, / l'equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, 
              / ti rende consueta la gioia d'una vita comune. / Nel tempo avvenire 
              l'abitudine concilia l'amore; / ciò che subisce colpi, per 
              quanto lievi ma incessanti, / a lungo andare cede, e infine vacilla". 
              Appare diverso, teneramente malinconico, più paterno ("E 
              spesso alcuni [...] trovarono fuori [di casa] una natura affine, 
              così da poter adornare di prole la loro vecchiaia", 
              vv. 1254-6). Personalità contrastata fra ratio e furor, Lucrezio, 
              come scrisse Schwob, "conoscendo esattamente la tristezza e 
              l'amore e la morte, continuò a piangere e a desiderare l'amore 
              e a temere la morte". 
               *Civiltà e peste: Nel libro seguente il 
              poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita 
              della civiltà: I re cominciarono a fondare città e 
              a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, 
              e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, 
              dell'ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza 
              però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della 
              civiltà nascono anche l'ambizione e la cupidigia, contro 
              cui Lucrezio si scaglia con forza: Lascia dunque che si affannino 
              invano e sudino sangue coloro che lottano sull'angusto sentiero 
              dell'ambizione, poiché sanno per bocca d'altri e dirigono 
              il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; 
              né questo accade e accadrà piú di quanto è 
              accaduto in passato (vv. 1131-1135). Insomma, Lucrezio pone molta 
              attenzione sul progresso dell'uomo e ne delinea gli effetti positivi 
              e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che 
              il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale 
              e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto 
              di evitare i desideri innaturali e non necessari, e di badare solo 
              al soddisfacimento di quelli necessari: gli unici requisiti essenziali 
              per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, 
              la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli sprechi inutili per 
              indirizzarsi verso i piaceri naturali. Anche nel discusso finale 
              dell'opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, 
              il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell'epicureismo, 
              per immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente 
              l'opera non doveva avere questo finale (è comunque appurato 
              che dovesse essere il sesto l'ultimo libro e non moltissimi versi 
              alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi degli 
              dei e la spiegazione di come l'epicureismo possa aiutare ad affrontare 
              persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane 
              comunque emblematico del tormentato animo lucreziano, che in questa 
              descrizione è piú vicino al gusto dell'orrido di stoici 
              come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino. 
               *Politica: Seguendo gli insegnamenti del maestro 
              Epicuro ('vivi al di fuori della sfera politica'), 
              Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni 
              e di tormenti per l'anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare 
              le inutili ricchezze e allontanarsi, poi, dalla vita politica, dedicandosi 
              a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, 
              somma ricchezza della vita umana. Lucrezio sottolinea la vacuità 
              e l'inutilità di ogni forma di potere: solo distanti dalla 
              vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e 
              guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è 
              soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini 
              che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è 
              indenni.  
            Lo stile. Se le teorie 
              epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l'animo, 
              Lucrezio la considera come il miele che, cosparso sull'orlo del 
              bicchiere, aiuta il bambino a prendere la medicina ( nam veluti 
              pueris abstinthia taetra medentes / cum dare conantur, prius oras 
              pocula circum / contingunt mellis dulci flavoque liquore - lib V 
              vv. 11-13): la sua poesia è scientifica, chiara ( obscura 
              de re tam lucida pango / carmina ), in netta rottura coi vatum terriloquis 
              dictis di molti poeti che l'hanno preceduto (anche se può 
              sembrare strano che la ricerca della chiarezza si accompagni ad 
              un frequente uso di arcaismi e grecismi). Il commento di Cicerone, 
              pensatore notoriamente avverso all'epicureismo, riguardo il De rerum 
              natura testimonia che egli ammirava in Lucrezio non solo l'acutezza 
              del pensatore, ma anche le grandi capacità di elaborazione 
              artistica. Anche lo stile, come l'organizzazione complessiva della 
              materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. 
              Si spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a una 
              prima vista, potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche. 
              Anche l'invito all'attenzione del lettore è ripetuto spesse 
              volte. Non bisogna trascurare inoltre che la lingua latina mancava 
              di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi in grado di esprimere 
              certi concetti della filosofia greca, Lucrezio si trovò costretto 
              così a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli: 
              il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri 
              ne crea ex novo. Vi è inoltre un uso abbastanza frequente 
              di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, infiniti passivi 
              in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai e l'uso dell'enjambement. 
              Lucrezio dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura 
              greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione 
              della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell'entusiasmo 
              poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile 
              severo, capace di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma 
              anche all'invettiva profetica: comunque sempre grandioso. 
               
               Considerazioni. Prima del De rerum natura, la 
              letteratura romana non aveva prodotto opere di poesia didascalica 
              di grande impegno; d'altra parte, Lucrezio si differenzia notevolmente 
              rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha come unico scopo quello 
              di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della vita dell'uomo 
              e del mondo, di convincere il lettore della validità della 
              dottrina epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua 
              ispirazione negli argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza 
              dell'importanza ella materia e delle informazioni date determina 
              un particolare tipo di rapporto tra Lucrezio e il lettore discepolo: 
              questo viene continuamente esortato e minacciato affinché 
              segua con rettitudine i precetti e il percorso di felicità 
              imposti dall'epicureismo. Un' ulteriore differenza tra la poesia 
              didascalica ellenistica e quella di Lucrezio sta nel fatto che quest'ultimo 
              ricerca le cause dei fenomeni, e propone al lettore una verità, 
              una ratio sulla quale è obbligato ad esprimere un giudizio, 
              mentre la prima si limita a descrivere in maniera empiristica tali 
              fenomeni. Per Lucrezio non vi è nulla di cui meravigliarsi 
              nell'osservazione di questo o quel fenomeno poiché esso è 
              connesso necessariamente con una regola oggettiva: non può 
              trarne stupore chi abbia capito il funzionamento di tale regola. 
              Alla retorica del mirabile egli sostituisce la retorica del necessario 
              (necesse est è una formula molto usata nel poema di Lucrezio). 
              I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono pensati per 
              spronare il lettore a scegliere anch'egli un modello di vita forte 
              e alta: il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi 
              in eroe, a farsi pronto e forte come la poesia che egli legge. Il 
              destinatario ideale di Lucrezio è colui che sa adeguarsi 
              alla forza sublime di un'esperienza sconvolgente: in questo modo 
              la dottrina degli atomi è descritta non solo in sé, 
              ma anche nelle reazioni di vertigine che può provocare nel 
              lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel De rerum natura 
              un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare per 
              contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi 
              ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è 
              la rigorosa struttura argomentativa. Lucrezio usa anche il sillogismo. 
              Il libro che testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è 
              il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. Pur avendo 
              dimostrato scientificamente la mortalità dell'anima, Lucrezio 
              si rende conto che ciò non basta per distogliere l'uomo dalla 
              paura di lasciare la propria vita. Al fine di convincerlo Lucrezio, 
              nella parte finale del libro, dà la parola alla Natura stessa, 
              che si rivolge all'uomo; si tratta di una delle più celebri 
              prosopopee della letteratura latina: 'Perchè la morte ti 
              strappa questi gemiti? Perchè se hai potuto godere a tuo 
              piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati 
              come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti 
              senza profitto, perchè, come un convitato sazio, non ritirarti 
              dalla vita? Perchè, povero sciocco, non prenderti di buona 
              grazia un riposo che nulla turberà? Se, invece, tutto ciò 
              di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita, se 
              la vita ti é di peso, perchè volerla prolungare di 
              un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi 
              tutto senza profitto? Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni 
              per farti piacere: le cose vanno sempre allo stesso modo. ' In questo 
              libro è evidente il contatto di Lucrezio con la letteratura 
              diatribica (ossia l'accorgimento di far parlare dei personaggi fittizi 
              di particolare interesse). I critici sono molto confusi 
              riguardo al binomio autore e narratore: benché siano la stessa 
              persona non devono essere sovrapposte meccanicamente. Come visto, 
              un'attenta lettura dell'opera induce a constatare che la tensione 
              dell'autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento 
              razionale del lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina 
              di liberazione morale. Lucrezio è fortemente contrario 
              alle insensatezze della passione amorosa poiché questa non 
              è certamente un bisogno necessario e deve essere, di conseguenza, 
              esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno agito anche 
              stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi 
              all'ideologia erotica dei neoteroi . La volontà di Lucrezio 
              è allora, come già detto, quella di ricercare un indirizzo 
              stilistico elevato che accolga nella sua forma sublime gli elementi 
              della satira e della diatriba.  
            Riassunto del De rerum natura. 
              La più grande opera di Lucrezio, il De rerum natura, fu scritta 
              in esametri e suddivisa in sei libri: probabilmente non fu finita 
              o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il poema è 
              dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna. 
              San Girolamo asserisce che il "De rerum natura" fu rivisto 
              e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di Lucrezio. La 
              data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta 
              nel periodo successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio. Il 
              motivo del poema, come spiega lo stesso Lucrezio, è la diffusione 
              della filosofia epicurea a Roma; un'impresa ardua, tanto più 
              per il fatto che la lingua latina aveva un vocabolario molto ristretto 
              e Lucrezio si trova in difficoltà nel tradurre in latino 
              parole greche centrali nella filosofia di Epicuro e deve ricorrere 
              a perifrasi nuove, quali semina, primordia o corpora prima per designare 
              gli atomi. Ma perché allora Lucrezio, per impartire insegnamenti 
              filosofici, si avvale della poesia? Lucrezio spiega che come i genitori 
              somministrano le medicine ai bambini cospargendole di miele per 
              renderle meno sgradite, così lui intende fare con la filosofia: 
              vuole cioè cospargere col miele delle Muse una dottrina apparentemente 
              amara, che riduce l'esistenza dell'uomo al mondo terreno. Quest'idea, 
              di sfuggita, è ripresa anche da Torquato Tasso in La Gerusalemme 
              liberata , libro I : E che il vero condito in mille versi, / i più 
              schivi allettando ha persuaso . Il poema è chiaramente 
              articolato in tre gruppi di due libri (diadi): nel I libro, 
              dopo l'inno a Venere, personificazione della forza vivificatrice 
              della natura e immagine della contemplazione razionale della bellezza 
              della natura, sono spiegati i princìpi generali della filosofia 
              epicurea: gli atomi, le parti ultime della materia (indivisibili, 
              immutabili, infinite), muovendosi nel vuoto infinito si aggregano 
              in modi diversi e danno vita a tutte le realtà esistenti; 
              interviene poi la disgregazione. Nascita e morte sono costituite 
              da questo processo di continua aggregazione e disgregazione: a rigor 
              di logica, spiega Lucrezio, nulla muore, nulla nasce e tutto si 
              conserva. Alla fine del I libro Lucrezio fa una carrellata di teorie 
              naturalistiche contrapposte a quella di Epicuro, confutandole una 
              ad una: Eraclito, Empedocle, Anassagora. Nel II libro 
              viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più 
              originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo: il clinamen, 
              ovvero la deviazione degli atomi dal loro corso, svolge due funzioni 
              importantissime. Se non ci fosse, da un lato, il mondo non si sarebbe 
              potuto formare: esso è infatti dato dallo scontro degli atomi 
              e dalla loro successiva aggregazione, ma se essi cadessero verticalmente 
              nell'infinito non potrebbero mai incontrarsi; con il clinamen, invece, 
              per una qualche legge che sfugge al rigido determinismo, può 
              succedere che qualche atomo si allontani dal suo moto verticale 
              e vada a scontrarsi con altri atomi. La teoria del clinamem, poi, 
              rende possibile il libero arbitrio dell'uomo, il quale è, 
              per Epicuro e per Lucrezio, artefice del proprio destino: l'idea 
              che nel mondo non tutto vada secondo necessità, secondo leggi 
              rigidamente determinate è dimostrato dal fatto che gli atomi 
              subiscano il clinamen (deviazione) e si scontrino, dando origine 
              al mondo; viene così garantito un margine di libertà 
              all'agire umano. Il III e IV libro costituiscono 
              la seconda coppia che espone l'antropologia epicurea: il III spiega 
              come l'anima e il corpo siano entrambi costituiti da atomi e, pettanto, 
              entrambi destinati a morire. Tuttavia si tratta di atomi diversi: 
              quelli dell'anima sono più leggeri e lisci. Il IV libro tratta 
              la gnoseologia epicurea: entra in gioco la teoria dei simulacra 
              , teoria secondo la quale alcuni atomi si staccano dall' oggetto 
              conosciuto per colpire i sensi del soggetto conoscente. I simulacra 
              , tra l'altro, servono anche per spiegare le immagini che vediamo 
              nei sogni e sono anche all'origine della reazione dei dormienti 
              di fronte all'immagine degli oggetti del loro desiderio. Lucrezio 
              dà anche una celebre spiegazione della passione d'amore, 
              spiegando come essa altro non sia che un'attrazione fisica, meramente 
              materiale. La terza coppia di libri prende in esame la cosmologia: 
              il libro V espone la mortalità del mondo 
              (uno degli infiniti tra i mondi esistenti), analizzandone il processo 
              di formazione. Lucrezio tratta anche, in questo libro, del moto 
              degli astri e delle sue cause. Il VI libro, invece, 
              si sforza di dare spiegazioni assolutamente naturali dei vari fenomeni 
              fisici (i fulmini, i terremoti, ecc), estromettendone la volontà 
              divina, che non influisce minimamente negli affari degli uomini. 
              Sulla descrizione dei vari eventi catastrofici si innesta la descrizione 
              della terribile peste scatenatasi ad Atene nel 430 e già 
              narrata splendidamente da Tucidide, con la quale l'opera si chiude 
              bruscamente. Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante 
              di dissoluzione. All'attacco di ogni libro, invece, c'è una 
              celebrazione di Epicuro ( ille deus fuit ripete Lucrezio), del suo 
              coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui Lucrezio evidentemente 
              intende il riferimento anche come rivolto a se stesso). Come detto, 
              il "De rerum natura" probabilmente non ha ricevuto un'ultima 
              revisione: il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, 
              in corrispondenza con il gioioso inno a Venere, e non con il terrificante 
              quadro della peste di Atene. 
             
             
              ...:::Diego Fusaro:::...
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