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Seneca: De ira, I11


 

Libro primo, paragrafo undicesimo.

Per uno strano, ma forse voluto, gioco del destino - o iniziativa personale, per dir così (le due cose, ben volentieri, mi si confondono) - riprendo la traduzione del "De ira" di Seneca all'indomani della tragedia che ha colpito l'innocenza di San Giuliano di Puglia. Ecco un tipico evento luttuoso che suscita ira, o forse sdegno, commisto a pietà e ad una punta di rassegnazione, o di frustrazione: non contro la Terra, la cui vita prosegue indifferente alle vicende degli uomini, e come tale è da accettare, rispettare e comunque amare - ma contro altri uomini, che con "condoni" e insufficienze di prevenzione, mettono a repentaglio la vita dei più indifesi. Non giudicatemi cinico: è sempre l'uomo, il colpevole. Nessun condono.
Passando a questo paragrafo di Seneca, c'è da dire che qui il filosofo si spoglia, più che altrove, della sua presunta patina etica, per imporsi nella sua vece di consigliere politico, nella fattispecie (addirittura) di stratega militare. Vi invito a soppesare questo passaggio concettuale, qui - di nuovo, più che altrove - piuttosto sfacciato: l'ira è da condannare, innanzitutto, secondo un calcolo "razionale" (ma sarebbe più opportuno dire, intellettualistico) di pro e contro, e, quindi, non secondo parametri di umanità e moralità, bensì secondo coordinate volte all'utile del potere e del dominio. L'ira non è dannosa, perché "cattiva" tout court, ma perché "non è utile" [XI, 8], perché è "controproducente" [XI, 1]: è, insomma, in guerra, cattiva consigliera di un'avventata e precipitosa strategia. Come dire: in campo bellico, la capacità tattica (è questa la "virtus" auspicata da Seneca [XI, 8]: la virtù morale non c'entra affatto) di monitorare le situazioni e di comportarsi di conseguenza, secondo una logica d'azione ferrea e non improvvisata, è il corrispettivo della "clementia" in campo politico.
Non segnali di un'umanità pietosa verso l'avversario o il suddito, ma strumenti consapevoli e congetturati a tavolino per assicurare, o per corroborare, il dominio e la forza del vincitore e del despota. In questo senso, non sbagliamo, secondo me, ad assimilare la conclusione di Seneca a quella di Machiavelli: la forza (il leone) non è nulla senza la pazienza, feroce ed astuta, della volpe. Tutto, e solo, politica. Tutto, e solo, dominio.


XI,1
"Ma non si può prescindere dall'ira, qualora si fronteggi un nemico" si ribadisce. Meno che mai, invece: contro il nemico, infatti, è opportuna un'ostilità non arruffata, bensì mirata e controllata. Ad esempio: cos'altro - se non appunto l'ira, coi suoi effetti decisamente controproducenti - vanifica la singolare forza fisica e resistenza dei barbari? E a riguardo dei gladiatori? Difesi dalla loro tecnica, si scoprono quando si lasciano trasportare dalla foga.

XI,2 Del resto, che bisogno c'è dell'ira, quando invece la ragione è in grado di ottenere il medesimo risultato? Forse che il cacciatore affronta le fiere armato d'ira? Piuttosto, attende il loro attacco per affrontarle, e la loro fuga per inseguirle, con una tattica dettata dalla ragione, non certo dall'ira.
Che cosa, poi, sbaragliò le migliaia di Cimbri e di Teutoni - riversatisi in orde oltre le Alpi - tal che la notizia di una così immensa strage giunse nella loro patria non per mezzo della voce di un messaggero, bensì sulle ali della fama, se non appunto il fatto che essi erano armati di veemenza selvaggia e distruttiva, piuttosto che di valore guerriero? E quella veemenza, per quanto abbia mostrato talora forza devastatrice al suo passaggio, più spesso si è rivoltata contro se stessa, annientandosi.

XI,3 E ancora: quale popolo è più coraggioso, aggressivo, più dedito - per natura, educazione e in modo esclusivo - all'arte bellica dei Germani? Quale popolo più temprato alle sopportazioni ed ai sacrifici, tal che non badano a coprirsi interamente il corpo e non allestiscono rifugi, a dispetto della perpetua rigidezza del loro clima?

XI,4 Eppure, prima ancora che lo scontro entri nel vivo, vengono puntualmente falcidiati da Spagnoli, Galli e persino da guerrieri asiatici e siri - gente inadatta alla guerra - proprio perché fondano la loro forza esclusivamente sull'aggressività disordinata. Altra storia se quei corpi e quelle indoli - non corrotte dai piaceri, dalla lussuria, dalle ricchezze - riuscissero ad avere anche un'organizzazione razionale e disciplinata!
Ma per rendere più circoscritte e più vicine a noi le mie parole, conviene ch'io passi ad rinverdire la memoria sui casi di Roma.

XI,5 Prendiamo l'esempio di Fabio [Massimo, il "temporeggiatore"; ndt]: con quale altro espediente egli riuscì a rimettere in sesto le forse stremate di Roma, se non con una tattica attendista e rinunciataria, del tutto ignota a coloro che agiscono sull'impulso dell'ira? Roma, già vacillante, sarebbe caduta per sempre, se Fabio avesse osato dare ascolto alle nefaste lusinghe dell'ira: egli, invece, mirò al bene dello Stato e, fatta una stima delle forze disponibili - ch'erano ormai l'ultimo, misero baluardo alla disfatta totale - mise da parte l'orgoglio e la brama di vendetta, puntando solo a conciliare utilità ed opportunità delle occasioni. Insomma, prima di sconfiggere Annibale, egli riuscì a vincere l'ira.

XI,6 Che dire, poi, di Scipione? Non trascurò, per un certo tempo, Annibale, l'esercito punico e tutti i nemici che altri avrebbe fronteggiato senza indugio, per trasferire la guerra in Africa, e con una tale lentezza di operazioni da destare, nei malpensanti, il sospetto di velleità ed indolenza?

XI,7 E l'altro Scipione? Non s'impegnò in un lungo ed estenuante assedio della Numanzia, mettendo a tacere l'impaziente orgoglio proprio e di tutta la cittadinanza romana, dovuto al fatto che ci sarebbe voluto più tempo a far cadere la Numanzia che non la stessa Cartagine? Con una paziente strategia di accerchiamento, spinse i nemici ad uccidersi con le proprie stesse armi.

XI,8 Da tutto ciò si evince che l'ira non porta frutto neanche negli scontri armati e nelle guerre; essa, infatti, si lascia scivolare nella temerarietà, e paga le conseguenze della sua stessa avventata bellicosità. Di contro, ben più saldo fondamento di vittoria è la capacità di studiare e valutare, a lungo e in modo discreto, la situazione, e che, ciò fatto, s'indirizza e si volge, con calma e determinazione, verso il bersaglio.


02 novembre 2002 - Trad. Bukowski


1. 'Sed aduersus hostes' inquit 'necessaria est ira.' Nusquam minus: ubi non effusos esse oportet impetus sed temperatos et oboedientes. Quid enim est aliud quod barbaros tanto robustiores corporibus, tanto patientiores laborum comminuat nisi ira infestissima sibi? Gladiatores quoque ars tuetur, ira denudat.
2. Deinde quid opus est ira, cum idem proficiat ratio? An tu putas uenatorem irasci feris? atqui et uenientis excipit et fugientis persequitur, et omnia illa sine ira facit ratio. Quid Cimbrorum Teutonorumque tot milia superfusa Alpibus ita sustulit ut tantae cladis notitiam ad suos non nuntius sed fama pertulerit, nisi quod erat illis ira pro uirtute? Quae ut aliquando propulit strauitque obuia, ita saepius sibi exitio est.
3. Germanis quid est animosius? Quid ad incursum acrius? Quid armorum cupidius, quibus innascuntur innutriunturque, quorum unica illis cura est in alia neglegentibus? Quid induratius ad omnem patientiam, ut quibus magna ex parte non tegimenta corporum prouisa sint, non suffugia aduersus perpetuum caeli rigorem?
4. Hos tamen Hispani Gallique et Asiae Syriaeque molles bello uiri, antequam legio uisatur, caedunt ob nullam aliam rem opportunos quam iracundiam. Agedum illis corporibus, illis animis delicias luxum opes ignorantibus da rationem, da disciplinam: ut nil amplius dicam, necesse erit certe nobis mores Romanos repetere.
5. Quo alio Fabius adfectas imperii uires recreauit quam quod cunctari et trahere et morari sciit, quae omnia irati nesciunt? Perierat imperium, quod tunc in extremo stabat, si Fabius tantum ausus esset quantum ira suadebat: habuit in consilio fortunam publicam et aestimatis uiribus, ex quibus iam perire nihil sine uniuerso poterat, dolorem ultionemque seposuit, in unam utilitatem et occasiones intentus; iram ante uicit quam Hannibalem.
6. Quid Scipio? non relicto Hannibale et Punico exercitu omnibusque quibus irascendum erat bellum in Africam transtulit, tam lentus ut opinionem luxuriae segnitiaeque malignis daret?
7. Quid alter Scipio? non circa Numantiam multum diuque sedit et hunc suum publicumque dolorem aequo animo tulit, diutius Numantiam quam Carthaginem uinci? Dum circumuallat et includit hostem, eo conpulit ut ferro ipsi suo caderent.
8. Non est itaque utilis ne in proeliis quidem aut bellis ira; in temeritatem enim prona est et pericula, dum inferre uult, non cauet. Illa certissima est uirtus quae se diu multumque circumspexit et rexit et ex lento ac destinato prouexit.


 
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