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Seneca: De ira, I5


 

Libro primo, paragrafo quinto.

Paragrafo programmatico: dopo un sommario fugace delle questioni poste, e in parte risolte, nei paragrafi precedenti [V,1], Seneca affina la propria modalità euristica: è impossibile un'esatta valutazione della natura e degli effetti dell'ira, se questa valutazione procede disgiunta da un'indagine, altrettanto sottile, sulla natura umana [V,2].
Solo rispettando questo assunto si giungerà al cuore del problema, che il filosofo tripartisce: se l'ira sia secondo natura, se presenti qualche utilità, se, sotto qualche rispetto, convenga preservarla [V,1].
L'andamento espositivo di Seneca assume, senza darlo a vedere, un'argomentazione marcatamente sillogistica: (premessa maggiore) la natura dell'uomo è volta al bene ed alla solidarietà comuni [V,2 e 3]; (premessa minore) la natura dell'ira si consuma nel desiderio nefasto del castigo, e quindi di un male inflitto [id.]; (conclusione) le due nature, quantomeno a rigor di logica, risultano inconciliabili [V,3] (terza definizione provvisoria: l'ira, secondo la sua natura, non appartiene propriamente al cuore dell'uomo).
La premessa maggiore ha, in realtà, valore di postulato etico: questo postulato - che, sancendo la "naturale" razionalità e politicità degli uomini, risponde, tutto sommato, ad una "antropologia" ottimista - ha lontana ascendenza socratica [il paradosso etico: l'uomo non può far consapevolmente del male], attraversa come un filo rosso la migliore speculazione classica, e giunge praticamente intatta fino alla struttura dottrinale stoica. E dunque, fino allo stesso Seneca.


V,1 Che cosa sia l'ira; se essa sia propria di qualche altro animale, oltre che dell'uomo; in cosa si differenzi dall'irascibilità; quante sfaccettature presenti: a tutti questi interrogativi ho cercato di fornire adeguata risposta. Ora, invece, m'appresto ad indagare se essa sia secondo natura, se presenti qualche utilità, se, sotto qualche rispetto, convenga preservarla.

V,2 Il primo interrogativo potrà sciogliersi immergendoci in un'attenta valutazione della natura umana. Che cosa c'è di più mite dell'uomo, quando la sua mente persevera nel giusto? Di contro, che cosa c'è di più crudele dell'ira? Qual essere, più dell'uomo, mostra amore verso gli altri? Di contro, che cosa c'è di più pernicioso dell'ira? L'uomo è stato informato alla reciproca solidarietà, mentre l'ira alla reciproca rovina; l'uno desidera la comunione, mentre l'altra la separazione; l'uno vuol recar bene e vantaggio, mentre l'altra nocumento; l'uno è disponibile anche verso gli sconosciuti, mentre l'altra giunge a minare persino gli affetti più cari; l'uno, infine, è disposto financo al proprio sacrificio pur di garantire il bene altrui, mentre l'altra si lascia coinvolgere persino nel pericolo, pur di raggiungere il suo scopo malvagio.

V,3 E allora, chi mostra più di misconoscere la Natura, di colui il quale associa questo male feroce e rovinoso alla Sua opera sublime e più riuscita [ovvero, all'uomo stesso; ndt]?
L'ira, come ho già detto, è tutta protesa ad esigere il castigo, e - come tale - è un desiderio nefasto che, per natura, non può di certo albergare nel candido e pacifico cuore dell'uomo. L'esistenza umana, infatti, è informata a recar bene e vantaggio agli altri, e s'unisce in comunione e solidarietà con essi, non secondo i dettami del terrore, ma secondo quelli del reciproco amore.


25 agosto 2002 - Trad. Bukowski


1. Quid esset ira quaesitum est, an in ullum aliud animal quam in hominem caderet, quo ab iracundia distaret, quot eius species essent: nunc quaeramus an ira secundum naturam sit et an utilis atque ex aliqua parte retinenda.
2. An secundum naturam sit manifestum erit, si hominem inspexerimus. Quo quid est mitius, dum in recto animi habitus est? quid autem ira crudelius est? Quid homine aliorum amantius? quid ira infestius? Homo in adiutorium mutuum genitus est, ira in exitium; hic congregari uult, illa discedere, hic prodesse, illa nocere, hic etiam ignotis succurrere, illa etiam carissimos petere; hic aliorum commodis uel inpendere se paratus est, illa in periculum, dummodo deducat, descendere.
3. Quis ergo magis naturam rerum ignorat quam qui optimo eius operi et emendatissimo hoc ferum ac perniciosum uitium adsignat? Ira, ut diximus, auida poenae est, cuius cupidinem inesse pacatissimo hominis pectori minime secundum eius naturam est. Beneficiis enim humana uita constat et concordia, nec terrore sed mutuo amore in foedus auxiliumque commune constringitur.


 


 

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