La
nascita e i primi generi.
Premessa. La storia del teatro latino conosce,
prima ancora del suo grande momento (la cui prima fase va da Livio
Andronico a Plauto, mentre la seconda si svolge da Ennio all'età
di Silla), un lungo capitolo, certamente non inglorioso, anche se
non legato ad individualità artistiche concretamente collocabili
nella prospettiva storico-letteraria; un lungo capitolo, che si
svolge attraverso quattro forme principali: i "fescennini", la "satura",
l' "atellana", il "mimo". Sul significato e sullo svolgimento sostanzialmente
unitario di questa quattro forme vanno fatte, tuttavia, alcune considerazioni
preliminari. [Si ricordi, comunque, che - com'è noto - la
data "ufficiale" d'inizio del "vero" teatro latino viene tradizionalmente
fatta coincidere con la prima rappresentazione drammatica di Andronico,
avutasi nel 240 a.C.]
L’origine. Un passo di Livio [VII,2], molto
noto e discusso, ci dice che nel 364 a.C. i Romani, non riuscendo
in alcun modo a debellare una pestilenza, decisero d'istituire,
fra gli altri accorgimenti per placare l'ira divina, anche ludi
scenici: per i quali fecero venire appositamente artisti dall'Etruria
("ludiones"), che eseguirono speciali danze al suono del
flauto, con apposita gesticolazione.
Il suddetto passo di Livio ci fornisce, dunque,
almeno due preziose indicazioni, che però vanno opportunamente
"corrette": la prima è che, in un certo senso, anche per
il teatro latino si può e si deve parlare di origini religiose,
o quantomeno di originario carattere apotropaico [seppure, in verità,
questo carattere "religioso" rimane legato decisamente alla circostanza
"esteriore"]; la seconda è costituita dall'identificazione
dell'evidente influsso etrusco su quelle stesse origini [ma tale
influsso non fu specifico solo per il teatro, coinvolgendo - nei
primi tempi e almeno fino al 510 a.C. - la totalità della
società e della politica romana; di contro, intorno al 240
a.C., in occasione dei Ludi Romani e in seguito ai contatti con
la civiltà greca, si cominciarono a rappresentare a Roma
drammi sul modello greco, che finirono col fondersi con le altre
forme drammaturgiche preesistenti].
Il retaggio delle antiche forme di spettacolo si
rinviene nello spirito e nel gusto per il divertimento, per il motto
scherzoso ["iocularia"]. E proprio il fatto che, ad es.,
nella imitazione dei giovani romani, la danza si sia arricchita
di tali modi buffoneschi e grossolane composizioni può dimostrare
che s'era visto, nell'elementare azione scenica dei danzatori etruschi,
non tanto una celebrazione cultuale quanto piuttosto un fatto etnicamente
nuovo, un'espressione insolita, che valeva la pena di raccogliere
e continuare in modi propri ed originali (ci troviamo, insomma,
dinanzi ad un paradigmatico esempio tra un modus romano di
guardare il mondo e una diversa prospettiva etnica e culturale).
Niente più che un retaggio, dunque, e inevitabilmente
proprio a causa della loro natura basata sull’improvvisazione, sulla
battuta di scherno, non ci è quasi rimasta alcuna testimonianza
o documentazione scritta di queste prime "rappresentazioni". Questo
ha reso difficile una ricostruzione certa dello sviluppo della drammaturgia
latina. Del resto, i generi drammaturgici più antichi, non
prevedevano, proprio per tipologia, l’esistenza di un testo e tanto
meno di un autore. Per questo, convenzionalmente, come detto, la
data di inizio della letteratura latina è stata fissata intorno
al 240 a.C., anno a cui risalgono cioè le traduzioni e gli
adattamenti di derivazione greca di Livio Andronico; ed anche del
suo contemporaneo Nevio, a parte il fatto che anche lui si "occupava"
di teatro, si sa poco altro.
I primi generi. I fescennini. Già
sul piano etimologico regna, riguardo questa prima forma di "rappresentazione",
la massima incertezza: sono, infatti, tradizionalmente avanzate
tre ipotesi. La prima fa derivare la parola dalla città falisca
di "Fescennium", al confine fra Etruria e Lazio: era ivi diffusa
l'usanza che schiere di contadini, nella stagione del raccolto,
per festeggiare l'abbondanza, si abbandonassero allo scambio di
versi tanto rozzi quanto vivaci e sboccati, che costituivano una
primitiva ma sincera espressione di ringraziamento alla divinità.
Secondo altri, invece, il termine risalirebbe al latino "fascinum",
malocchio, quello gettato agli altri carri incolonnati e carichi
di uva in occasione della vendemmia (secondo altri ancora, era al
contrario la formula per scongiurarlo).La terza ipotesi lo lega,
infine, al suo senso fallico, come sinonimo di "veretrum".
Ma queste tre derivazioni non si escludono necessariamente a vicenda,
almeno per il fatto che vi è sottesa (anche qui), in tutt'e
tre, un'intenzione evidentemente apotropaica.
Nonostante i suoi tratti caratterizzanti (l'azione
drammatica del contrasto dialogato, l'atteggiamento scenico dei
personaggi che si camuffavano con maschere, le danze buffonesce
che talora le accompagnavano), il fescennino non si risolse mai
in una vera e propria azione teatrale, anche se contribuì
enormemente alla nascita della "drammaturgia" latina.
La sua mordacità, poi, raggiunse tali eccessi
che intervenne addirittura la censura delle "Leggi delle XII tavole",
comminando la pena di morte a chiunque componesse carmi infamanti
contro un cittadino romano: tuttavia, il suo carattere licenzioso
rimase vivo e vitale, e sopravvisse a livello popolare, ad es. come
canto rivolto dagli amici agli sposi novelli (in segno evidente
di buon augurio e fertilità) o come una forma di mordace
componimento invettivo-satirico contro personalità in vista
(una sorta di antiche "pasquinate"). Un esempio di fescennino "letterario",
infine, si trova nel carme LXI di Catullo.
Le (fabulae) Atellanae. Riguardo questo
genere, occorre dire subito che ci troviamo di fronte ad una forma
in cui appare una disciplina ed un'impostazione scenica molto più
caratterizzata e definita rispetto alle altre forme. Si può
parlare, infatti, di schemi determinati e costanti, quasi a livello
(se vogliamo) della nostra "commedia dell'arte" del 1700.
L'etimologia non pone problemi sul piano linguistico,
in quanto è evidente la derivazione dalla città campana
di Atella, fra Capua e Napoli. La discordia nasce, più che
altro, a proposito della natura del legame esistente fra questa
cittadina e la fabula che ne mutuò il nome: forse
derivò dalla "pazza" scelta di Atella di schierarsi, durante
la II guerra punica, contro Roma, che le riservò una durissima
punizione (per cui, quella manifestazione - "pazza" per forme e
contenuti - ne prese di riflesso appunto il nome); altri, forse
più opportunamente, insistono sul carattere etnico - frizzante
di "acetum" - della regione nella quale la cittadina sorgeva,
luogo d'incontro delle più svariate e multiformi correnti
etniche e culturali, aventi però tutte in comune una certa
rustica e genuina vivacità.
Per "atellane", dunque, si intendono - almeno nella
loro forma primitiva (I metà del III sec. a.C.) - improvvisazioni
di breve durata, di contenuto farsesco (s'ipotizza, ancora, una
loro derivazione dalla farsa fliacica, di origine greca, costituite
da scenette mitiche o realistiche). Queste rappresentazioni, popolaresche
e vernacolari, servivano (come spesso anche le altre forme) da "exodium"
"catartico" negli spettacoli tragici, ovvero da spettacolo finale
tendente a ridare agli spettatori quel senso di serenità
che le terrificanti scene tragiche avevano spento o attenuato; molto
simili tra loro, esse erano animate dalla presenza di personaggi
fissi con proprie maschere e propri costumi caratteristici: Pappus,
il vecchio ridicolo, quasi antenato del nostro Pantalone; Maccus,
il tipo dello scemo maltrattato, quasi il nostro Pulcinella; Dossenus,
il gobbo astuto ed imbroglione [il nostro Dottore?]; Bucco, insaziabile
tardo e maleducato, spesso relegato al ruolo di servo [il nostro
Brighella?].
Così, l'atellana era spesso una creazione
di attori professionisti, che sulla scena la recitavano a braccio
in base ad una sorta di canovaccio, un tessuto di comiche complicazioni
ed incidenti, detto "trica" (da cui il nostro "intrigo"); tuttavia,
incontrò tanto favore presso i giovani romani, che essi stessi
a volte se ne improvvisavano attori; fino a quando Novio e Pomponio,
nei primi decenni del I sec. a.C., non ne le diedero definitiva
dignità letteraria, sostituendo tra l'altro il testo scritto
all'originaria improvvisazione.
Il mimo. Il "mimo" era un'azione drammatica
di breve durata, di carattere precipuamente macchiettistico e caricaturale,
e di derivazione (anche etimologica = "imitare") greca (ma molto
diverso nella forma dal corrispettivo "progenitore"): era particolarmente
diffuso presso i Siracusani e i Tarentini, e non stupisce perciò
che i soldati romani avessero imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo
specialmente durante la guerra di Pirro e la I guerra punica (ciò
spiegherebbe anche la sua datazione, relativamente alta, d'ingresso
a Roma). In alcuni casi, esso si trasformava in spettacolo "composito"
vero e proprio, anche se la sua parte principale, "istintiva", era
costituita più propriamente dal "gesto". Pare, inoltre, che
ne esistessero vari tipi: dagli "hypothésesis", quando
cioè avevano una "trama" precisa, ai "paignia", quando
invece consistevano in esercizi di destrezza, da giocolieri, in
danze, ecc…, sempre di carattere comunque molto libero e licenzioso
. Tuttavia, non è facile ricostruirne con esattezza, in prospettiva
storica, la fase e la forma originarie.
Comunque, l'elemento di maggiore differenziazione
rispetto, ad es., all' "atellana" (con la quale esso tranquillamente
si scambiava il posto e la funzione di exodium), sembra consistere
nel fatto che - proprio per rimanere nella prospettiva dell' "imitazione"
della vita reale - esso ignorava l'uso delle maschere e di calzature
speciali e ricorreva (caso unico) ad interpreti di sesso femminile
per i personaggi appunto femminili (nelle altre rappresentazioni,
erano attori maschi a mascherarsi da donne). Questi due tratti caratterizzanti
abbisognano, però, di puntualizzazioni: riguardo al primo,
c'è da dire che se è vero che gli attori non ricorrevano
alle "maschere", ovvero più propriamente recitavano a "viso
scoperto", è altrettanto vero che anche questa rappresentazione
annoverava personaggi "fissi", facilmente distinguibili per via
del loro abbigliamento tipico e stabile: ad es., il "mimus albus",
vestito tutto di bianco (il nostro Pulcinella?) e il "mimus centuculus",
dall'abbigliamento al contrario multicolore (Arlecchino?); riguardo
il secondo tratto, invece, c'è da dire che la presenza femminile
sul palco condusse, ben presto e facilmente, alla degenerazione
lasciva di questa rappresentazione verso forme sceniche in cui il
ruolo principale era giocato dall'esibizione del nudo femminile
("nudatio mimarum", soprattutto durante i "Ludi Florales"
[per cui, vd. oltre]), che costituiva - a suon di fischi e applausi
- un po' il culmine di questi spettacoli (non a caso, spesso, queste
"attricette" erano arruolate tra i ranghi delle "meretrices"
- più o meno, le nostre "lucciole" - o comunque ad esse erano
assimilate).
Solo ai tempi di Cesare, infine, autori come Decimo
Laberio e Publilio Siro fecero assurgere questo genere a definitiva
dignità letteraria.
La satira. La "satira" nasce, forse, da
una particolare evoluzione dei "fescennini versus", quando
questi cioè vennero a fondersi con le forme di danza sacrale-liturgica
di stampo, come visto, etrusco. La sua etimologia è, fra
quelle degli altri generi, certamente la più contrastata.
Già il grammatico Diomede, a riprova di ciò, proponeva
ben quattro ipotesi di derivazione, poi divenute "canoniche": la
prima risulta in connessione con la grafia "satyra", considerata
però subito sospetta in quanto "dotta" e volta a sottolineare
forzatamente l'accostamento (non provato, del resto) di questo genere
all'ambiente dei "Satyri", ovvero al dramma satiresco greco,
al fine di documentare una progenie illustre; la seconda ipotesi
- "satura lanx" - richiamava, per analogia, il piatto ricolmo delle
più svariate primizie, dono votivo offerto agli dei; la terza
- "per saturam" - alludeva più tecnicamente al carattere
"farcito" di quelle rappresentazioni; l'ultima ipotesi, infine,
si ricollegava all'espressione "lex satura", per indicare
la varietà di soggetti riscontrabile in una composizione
poetica.
In verità, anche qui, le varie ipotesi etimologiche
non si escludono necessariamente a vicenda (almeno le ultime tre),
giusto per il fatto che praticamente le accomuna il riferimento
alla molteplicità e varietà di argomenti, o comunque
di espressioni, che si potevano riscontrare nelle rappresentazioni
satiriche: queste, infatti, offrivano al popolo uno spettacolo vario
e pieno di svariati elementi, quali ad es. il dialogo, la danza,
la musica, il canto, la gesticolazione, il tutto efficacemente coordinato
secondo un ritmo musicale [per l'importanza della musica nelle rappresentazioni,
vd. l'apposito paragrafo più sotto]. Difficile però,
e di conseguenza, stabilire se in esse vi fosse un'effettiva "azione
unitaria" ed unificante, anche se francamente si propende a sancirne
l'assenza.
Ma la "questione" non finisce qui. Già le
definizioni di Diomede, infatti, distinguono fra due diversi tipi
di "satura", l'una più antica, coltivata da Ennio
e Pacuvio, e caratterizzata come visto dalla varietà dei
temi, l'altra più recente, inaugurata da Lucilio, con carattere
più propriamente e decisamente moralistico, di fustigazione
dei costumi (quel genere, insomma, che evolverà nei capolavori
di Orazio, Persio e Giovenale fino - se vogliamo - al "Satyricon"
di Petronio); di contro, non c'è alcuna allusione alla satira
come forma drammatica indigena, risultata dalla fusione della musica
e della danza etrusca col "fescennino", come attestato invece da
Livio.
Queste considerazioni pongono sul tavolo un'enorme
messe di altri problemi e discussioni, che - data la loro complessità
e il carattere sempre aperto e non definito delle conclusioni -
preferisco lasciare a livello d'interrogativi [mutuandoli da N.
Flocchini], ovvero:
- in che rapporto sta la "satura" drammatica
con quella letteraria?
- la satira di Ennio, Pacuvio e Varrone Reatino
e quella di Lucilio-Orazio rappresentano due generi diversi che
hanno in comune solo il nome, o la satira di Lucilio costituisce
una "normalizzazione" del filone più antico?
- in che senso si può condividere l'orgogliosa
affermazione di Quintiliano, secondo cui "satura tota nostra
est?"
La commedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
introduttivi. La commedia romana sembra sostanzialmente non
discostarsi dalla "commedia nuova" greca, se non che per
poche innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato solo successivamente
dagli editori); l’introduzione dell’accompagnamento musicale, peraltro
probabile retaggio della tradizione etrusca [per musica e coro vd.
oltre]. Questo tipo di commedia veniva definita "fabula palliata"
(così chiamata dal mantello che indossavano gli attori, che
riproduceva l'analogo mantello greco: si trattava, quindi, di commedie
d'ambientazione appunto greca). Accanto a questa, ne esisteva anche
un'altra, di contenuto e ambientazione romana, detta "fabula
togata" (dalla "toga", abito nazionale italico) e/o "tabernaria"
(dalla "taberna", casa degli umili). Primi, fondamentali
autori di commedie furono: Plauto, Terenzio (che, a differenza dei
loro predecessori, scrissero solo commedie), Titinio, Afranio, Atta.
[Ovviamente, per una trattazione più completa dell'evoluzione
del genere comico e dei suoi autori più importanti, rimando
ai relativi capitoli]
La tragedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
introduttivi. Il genere della tragedia, molto presto assai apprezzato
dal pubblico, fu completamente ripreso dai modelli greci e definito
dai romani "fabula cothurnata" (per le particolari calzature,
i "cothurni" appunto, indossate dagli attori) ovvero "palliata"
(per il mantello, cfr. sopra) se di temi e ambientazione greca;
mentre, se di temi ed ambientazione più specificamente romani
(con soventi allusioni all'attuale clima politico), eran dette "praetextae"
(in quanto gli attori vestivano appunto la "toga praetexta",
orlata di porpora, ch'era l'abito distintivo dei magistrati). Gli
unici autori di cui si abbia memoria (ma non i testi) sono Ennio,
Pacuvio ed Accio. Accanto a questa produzione, che potremmo definire
"aulica", si mantenne una produzione "minore", oltre ai consueti
spettacoli romani: le corse dei carri, i combattimenti dei gladiatori,
venationes e naumachie. Le tragedie romane, che ci sono pervenute,
risalgono ad un periodo decisamente successivo, compreso tra il
30 e il 60 d.C., per lo più opera di Seneca (a cui, anzi,
dobbiamo anche l'unica "pretesta" giuntaci, l' "Octavia").
[Anche qui, per una trattazione più completa
dell'evoluzione del genere tragico e dei suoi autori più
importanti, rimando ai relativi capitoli]
Temi
e modi delle rappresentazioni.
L'organizzazione degli spettacoli. L'organizzazione
degli spettacoli teatrali non era lasciata alla libera iniziativa
di autori e compagnie, ma era specifico compito (come vedremo riguardo
le "ricorrenze" del teatro) degli "aediles" o in qualche
caso del "praetor urbanus", i quali se ne servivano volentieri
come mezzo di propaganda elettorale e non di rado vi profondevano
anche del proprio denaro, pur di assicurarne la migliore riuscita.
Questo comportava necessariamente l'esercizio di un certo condizionamento
("censura", se vogliamo) da parte del potere politico sulla libertà
di pensiero degli autori [si ricordino, a tal proposito, i guai
in cui incorse Ennio].
In genere, i magistrati acquistavano personalmente
il dramma dall'autore (il quale, non raramente, per favorire l'acquisto,
viziava l'opera di sottintesi adulatori) e stipulavano una specie
di contratto col "capocomico", al quale pagavano una parte delle
spese necessarie all'allestimento scenico, salvo a farsi rimborsare
in caso d'insuccesso (dunque, a ben vedere, il rischio maggiore
gravava proprio sul "capocomico"). Da precisare, infine, che non
esisteva alcuna forma di tutela continuativa del diritto d'autore,
poiché - con la vendita - l'autore stesso perdeva ogni diritto
sulla sua commedia.
Gli attori e le compagnie. La professione
dell’attore godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia,
ma certamente non a Roma: qui, gli attori ("grex") di drammi
"regolari" erano schiavi o liberti, mentre quelli delle "Atellanae"
erano uomini liberi. Essi, ancora, si dividevano in due categorie
principali: gli "histriones" e i "mimi". Quasi certamente,
soltanto con Roscio - il più grande attore della romanità,
vissuto ai tempi di Cicerone e da lui, anzi, difeso in una famosa
orazione - si riuscì a riabilitare tale professione. Riguardo,
invece, i primi attori "illustri", di Livio Andronico sappiamo con
certezza che fu anche "prim'attore" dei suoi drammi; lo stesso Plauto
fu forse in gioventù attore di atellane, mentre è
incerto se e quando abbia recitato nelle sue commedie; al contrario,
Stazio e Terenzio, quasi certamente, non calcarono mai le scene.
Oltre agli attori, delle compagnie teatrali ("catervae")
facevano parte il già citato "capocomico" ("dominus grecis";
uno dei più famosi fu Ambivio Turpione, amico di Terenzio),
un "conductor" (direttore delle prove) e il "choragus",
una sorta di "tuttofare" che forniva i costumi e provvedeva alla
messinscena.
I costumi. I costumi cambiavano a seconda
del genere teatrale: commedia, tragedia e atellana. Come abbiamo
già visto, a proposito dei brevi cenni sul genere comico
e tragico (cfr. sopra), per tutte le rappresentazioni di ambientazione
greca gli "histriones" vestivano abiti che richiamavano molto
da vicino gli omologhi ateniesi (in special modo: il "pallio",
da cui il termine "palliata" per designare sia commedie che tragedie
di questo tipo; e i "cothurni", una speciale calzatura greca,
che accresceva la statura e la dignità dell'attore, da cui
il termine "cothurnata", sempre per designare tragedie d'argomento
greco; nelle commedie si adoperava invece una calzatura più
"umile" e bassa, il "soccus"). Invece, per le rappresentazioni
di ambientazione romana, gli attori indossavano la classica "toga"
(da cui il termine "togata" per designare commedie di questo
tipo), talora "praetexta" (l'abito tipico dei magistrati),
se si trattava di rappresentazioni a contenuto tragico. Anche il
colore delle vesti, insomma, insieme con altri "accessori" ancora,
serviva a caratterizzare i personaggi secondo la loro funzione.
A tal scopo, i costumi di certi attori - al di là dello stesso
"pallio" - erano quasi sempre gli stessi, sicché era
facile riconoscerli al loto primo apparire sulla scena: così,
il soldato portava la spada e la clamide, il messaggero il tabarro
e il cappello, il villano la pelliccia, il parassita il mantello,
il popolano il farsetto. Come già accennato, poi, i ruoli
femminili (tranne che nei "mimi") erano sostenuti da attori
maschi.
Infine, anche i "mimi" stessi - come detto
- avevano un loro abbigliamento tipico e stabile, che permettesse
d'inquadrare immediatamente i "tipi" ch'essi interpretavano: ad
es., il "mimus albus", vestito tutto di bianco e il "mimus
centuculus", dall'abbigliamento al contrario multicolore.
Le maschere. Le maschere romane, sul modello
di quelle greche, erano di legno o più semplicemente di tela,
con applicata una capigliatura: il loro uso facilitava l’interpretazione
degli attori, non solo perché essi dovevano impersonare più
ruoli, o personaggi di aspetto simile, ma anche perché i
tratti del viso erano esagerati (e dunque potevano meglio essere
rilevati dagli spettatori) e la bocca era fatta in modo da rafforzare
il suono della voce ("ut per-sonaret", da cui - secondo alcuni
- deriverebbe il termine con cui la designavano Romani, "persona"):
cose, queste, rese necessarie dalla ordinaria vastità degli
antichi teatri.
Un problema particolare, poi, è rappresentato
dalla "controversa" origine della stessa maschera e del suo effettivo
uso: se è data oramai quasi per scontata la sua derivazione,
originaria e "funzionale", dagli Etruschi (tanto che il termine
"persona", secondo altri, le proverrebbe addirittura dal
dio etrusco "Phersus"), e se si può attestare (con
una certa sicurezza) che il suo uso era d'obbligo nella tragedia,
non altrettanto certo ne appare l'uso nella commedia (anche se ciò
non spiegherebbe come gli attori ovviassero a quei casi in cui -
vd. l' "Amphitruo" plautina - occorrevano sulla scena due personaggi
di aspetto perfettamente identico): si è ipotizzato, quindi,
ch'essa sia stata introdotta nella commedia solo nel 130 a.C., dal
"capocomico" Minucio Protimo, e che il suo uso fosse stato definitivamente
"stabilizzato" solo grazie al già citato Roscio.
Nel teatro dei "mimi", la maschera invece
(come visto) non esisteva, e vista la popolarità di questo
genere, man mano essa probabilmente scomparve in modo definitivo
dal teatro romano.
I personaggi (della "palliata"). I personaggi
della commedia palliata erano dei "tipi" fissi; tra le figure maschili
emergono: quella del padre, ora severa, ora bonaria, ora libertina;
quella del giovane, sempre caratterizzata dall'amore per un'avvenente
schiava o cortigiana e dalla mancanza di mezzi ed espedienti per
soddisfare la propria passione; quella del soldato, sempre contraddistinta
dalla spacconeria; quella dello schiavo, la più variamente
atteggiata e completa: vi sono schiavi astuti, vivaci, intelligenti,
sinceramente affezionati ai padroncini, per aiutare i quali non
esitano a turlupinare i vecchi padroni.
Tra le figure femminili, ci sono: quella della
moglie, sempre gelosa; quella ripugnante della ruffiana; quella
della bella schiava, che fa spasimare; quella della cortigiana,
che vuole spillare denaro; la figura della madre appare poco, ma
il poeta, quando la presenta, sente il bisogno di circondarla di
quell'aureola di onestà che era tipica della santità
dei costumi domestici della famiglia romana.
La musica. Alla musica, all'interno dello
spettacolo, era affidata una funzione importantissima: il flautista
("tibicen") accompagnava, con apposite melodie, gli attori
nelle parti declamate e dialogate ("diverbia") o cantate
("cantica"), tranne in quelle in senari giambici (sembra
che i primi suonatori siano venuti a Roma dall'Etruria). L'accompagnamento,
ch'era più di un semplice "corredo" musicale, veniva fatto
con la "tibia": questa era semplice o doppia (costituita,
cioè, da due tubi di lunghezza variabile) e si distingueva
in "dextera" e "sinistra", a seconda che era suonata
tenendola appunto con la destra o la sinistra, o imboccandola dal
lato destro o sinistro della bocca. In realtà, l'indicazione
finiva col designare il diverso tono dello strumento, rispettivamente
l' "alto" e il "basso": dipoi, i suoni più gravi, ottenuti
con tibie di uguale lunghezza, si addicevano maggiormente alle parti
"serie" della commedia, mentre quelli più acuti, ottenuti
con tibie di diversa lunghezza, si addicevano alle parti più
comiche.
L’accompagnamento del musico aveva, inoltre, delle
convenzioni molto rigide (il pubblico era in grado di capire il
personaggio che sarebbe entrato, o cosa sarebbe accaduto dalla sola
musica di introduzione) e accompagnava lo spettacolo dall’inizio
alla fine spostandosi, a volte, insieme ai personaggi.
Purtroppo, la musica del teatro romano è
andata tutta perduta, e non si è in grado di ricostruire
in alcun modo, per quest'aspetto, lo spettacolo: grave lacuna, che
c'impedisce di valutare appieno la natura e il carattere del teatro
romano comico e tragico.
Prologo e coro. Da Euripide - che per primo
ebbe l'idea dell'uso del "prologo" per illustrare agli spettatori,
prima dell'inizio del dramma, l'antefatto dell'azione, l'azione
stessa e la sua conclusione - discende una linea retta che porta
alla "commedia nuova" e di qui al teatro comico latino: più
specificamente, come vedremo, in Plauto il prologo avrà per
lo più funzione espositiva, mentre in Terenzio esso compirà
l'importante e originale funzione di esporre le ragioni artistiche
dell'autore, in polemica con avversari e detrattori.
Riguardo il "coro", invece, c'è da
dire che se la tragedia conservò grosso modo la struttura
dei modelli greci, compresa la divisione in cinque parti, la commedia,
invece (che s'innestava su un terreno drammaturgico come visto già
vitale ed originale, di cui l'enfasi ritmico-musicale era parte
integrante), ci si presenta, nella realizzazione degli autori latini,
con caratteri compositivi alquanto differenti da quelli dei modelli
suddetti: il coro, appunto, che nella "commedia nuova" esisteva
con funzione d'intermezzo, venne abolito, e con esso cadde anche
la divisione in atti, mentre presero grande sviluppo, almeno per
quanto possiamo valutare da Plauto, proprio le parti cantate dagli
stessi attori (i già citati "cantica"), con effetti
di grande spettacolarità e di grande presa sul pubblico (come
forse già sperimentato da Livio ed Ennio), laddove nei modelli
greci erano per lo più dialoghi o monologhi semplicemente
recitati (Terenzio, invece, più "fedele" a Menandro, preferì
notevolmente il parlato al canto).
Infine, una gustosa postilla: è interessante
la notizia che il cantante, che intonava il suo canto stando in
primo piano sulla scena, talvolta si faceva letteralmente "doppiare",
poiché si limitava a mimare il canto, mentre un altro esecutore,
nascosto in fondo alla scena, gli prestava la voce (pare che la
"trovata" sia stata di Livio Andronico, che - recitando di persona
una delle sue opere - la escogitò per ovviare ad una caduta
di voce, a causa dei numerosi, acclamati "bis").
L’edificio scenico. Il teatro ci si presenta,
oggi, come una delle più originali e feconde realizzazioni
dell'architettura romana; eppure, i Romani cominciarono a costruire
veri e propri edifici teatrali (cioè, in muratura) soltanto
nel 30 a.C., mentre - prima di questa data - le strutture che ospitavano
gli spettacoli erano provvisorie, di legno e appositamente costruite
per i diversi eventi, spesso erette nel circo o davanti ai templi
di Apollo e della Magna Mater. I primi teatri "stabili",
comunque, riproducono più o meno la struttura dei teatri
greci, anche se con alcune importanti modifiche. La passione dei
romani per generi di spettacolo molto importanti e "ingombranti",
rese ben presto necessaria la creazione di luoghi adeguati che potessero
ospitarli. Tale necessità è evidentemente all’origine
della ideazione e costruzione degli Anfiteatri il cui maggiore esempio
è per tutti l’Anfiteatro Flavio (Colosseo).
Il teatro romano di età augustea e imperiale,
così, a differenza di quello greco, si presenta come edificio
a pianta semicircolare, costruito su terreno pianeggiante (non appoggiato
su un declivio come quello greco), chiuso da mura perimetrali di
uguale altezza che collegano la "cavea" (le gradinate per
gli spettatori) con la scena monumentale di struttura architettonica,
dinanzi alla quale si apre il palcoscenico ("pulpitum"),
basso ma profondo (nel teatro greco, invece, fino al IV sec. a.C.
non esisteva palcoscenico, e gli attori agivano, insieme col coro,
nell' "orchestra" circolare). Questa forma "chiusa" rendeva possibile
anche la copertura dell'intero edificio con un "velarium",
per riparare gli spettatori, prefigurandosi chiaramente come il
prototipo dell'edificio teatrale moderno.
Le scene. Le notizie relative alla scenografia
romana si basano principalmente sulle testimonianze di Vitruvio.
Da queste, sembrerebbe che il teatro romano, almeno all'inizio,
non presentasse una scenografia molto complessa, e che fossero piuttosto
gli attori ad evocare, con i loro dialoghi, ambienti e circostanze
diverse.
Di sicuro, comunque, gli elementi scenografici
sempre presenti erano:
1. il "proscenium", in legno, che comprendeva
ciò che noi oggi chiamiamo propriamente "scena", ossia
quella parte anteriore, dove gli attori recitano: esso raffigurava,
in genere, una via o una piccola piazza
2. la "scenae fronts" (il nostro "fondale"),
costituita da una parete dipinta, con un’architettura simile alla
facciata di un edificio, nella quale si aprivano diversi ingressi
(due o tre porte) utilizzati dagli attori: se si tiene conto dei
passaggi laterali, le possibili uscite erano quattro o cinque.
Comunque, mentre quelle sullo sfondo raffiguravano, per così
dire, gli "interni" della vicenda, le due laterali raffiguravano,
rispettivamente, quella di destra (dal punto di vista degli spettatori)
la via che portava al foro, quella di sinistra la via che portava
al porto (i due luoghi, cioè, più importanti della
città, dal punto di vista rispettivamente politico-giuridico
e commerciale). La convenzione teatrale prevedeva, poi, pressoché
stabilmente, che dietro le case, le cui porte si vedevano sul
fondale, ci fosse un vicoletto ("angiportum"), che permetteva
di raggiungere le case stesse attraverso il giardino, e comunque
per il retro.
3. i "periaktoi", di derivazione greca,
prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica
su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo.
4. l’ "auleum", un telo simile al nostro
attuale sipario (attestato con sicurezza solo dall'epoca di Cicerone,
e sconosciuto invece ai Greci), che consentiva di rivelare improvvisamente,
lasciato cadere dall’alto, una nuova scena. Secondo altri studiosi,
invece, questo "sipario" non veniva calato dall'alto, bensì
sollevato dall'alto, e non veniva usato per distinguere un atto
dall'altro, ma solo alla fine della commedia.
Negli anfiteatri, infine, gli effetti speciali
erano realizzati spesso con l’utilizzo di macchine teatrali, anche
queste di derivazione greca: uno degli effetti più sensazionali
e graditi erano le scene di massa, affollate di personaggi e animali.
Gli spettatori. Il pubblico a cui il teatro
romano si rivolgeva non era (a differenza di quello greco) colto
e raffinato, né ancora educato agli ideali dell' "urbanitas",
né tantomeno socialmente omogeneo: anzi, era prevalentemente
plebeo, perché alle rappresentazioni, che erano organizzate
dallo stato, potevano accedere tutti, senza alcuna distinzione sociale.
Di conseguenza, bisogna sottolineare come fosse difficile attirare
l'attenzione di una simile platea, sia per la sua irrequietezza,
sia perché - contemporaneamente alle rappresentazioni teatrali
- venivano dati anche spettacoli di circo ed esibizioni di giocolieri:
gli spettatori dimostravano preferire, insomma, l'intreccio avventuroso,
i duelli verbali preferibilmente scurrili, una scena movimentata
da ballerini e cantanti e, di conseguenza, policromia stilistica
e polimetria. La genialità di Plauto consistette proprio
nell'adattare le forme culturalmente più "mature" del teatro
greco a queste grossolane esigenze indigene: di qui, si spiega il
suo clamoroso successo. Di contro, si spiegano altrettanto facilmente
i continui e dolorosi "flop" delle rappresentazioni delle opere
di Terenzio, che puntava su una caratterizzazione meno "pacchiana"
e più intima e psicologica dell'intreccio (ridotto peraltro
al minimo), mal accetto da un pubblico non ancora pronto a questa
"raffinata" evoluzione.
Le ricorrenze. Anche a Roma, come in Grecia,
la maggior parte dell’attività teatrale si svolgeva nel corso
delle feste a carattere religioso e, anche se più raramente,
in occasione di vittorie militari, consacrazione di pubblici edifici,
o per i funerali di importanti personalità. Con la fondamentale
differenza che mentre ad Atene la partecipazione agli spettacoli
rappresentava per il pubblico il momento più alto ed intenso
di un'esperienza insieme religiosa etica e politica, per il pubblico
romano fu sostanzialmente divertimento, sia pure di tono più
o meno elevato.
I Romani, precisamente, dedicavano alle diverse
divinità alcuni giorni fissi dell’anno, durante i quali organizzavano,
oltre alle celebrazioni di rito, anche (appunto) spettacoli teatrali,
che di quelle celebrazioni fossero ornamento e completamento. Definivano
tali periodi "Ludi", accompagnati da un aggettivo che derivava
o richiamava in qualche modo la divinità che si celebrava;
così, i più importanti di questi "ludi" erano:
- i "ludi Romani", di antichissima istituzione,
che si celebravano in settembre, in onore di Giove Ottimo Massimo,
nel Circo Massimo (proprio nella ricorrenza del 240, avvenne
la già ricordata rappresentazione liviana); alla loro
organizzazione erano preposti gli "edili curuli";
- i "ludi plebei", istituiti nel 220,
che avevano luogo in novembre nel Circo Flaminio, pure in onore
di Giove e per commemorare la riconciliazione del patriziato
con la plebe, dopo la famosa secessione dell'Aventino; a partire
dal 200, vi furono introdotte le rappresentazioni drammatiche,
inaugurate con lo "Stichus" di Plauto; alla loro organizzazione
erano preposti gli "edili plebei";
- i "ludi Apollinares", istituiti nel
212; si svolgevano in luglio, presso il tempio di Apollo (per
commemorarne un oracolo) e furono dotati sin dall'inizio di
spettacoli scenici; alla loro organizzazione era preposto il
"pretore urbano";
- i "ludi Megalenses", in onore della
"Magna Mater"; istituiti nel 204 (aprile), furono arricchiti
di "ludi scaenici" a partire dal 194; alla loro organizzazione
erano preposti gli "edili curuli";
- i già accennati "ludi Florales",
in onore di Flora: in essi predominavano gli spettacoli di mimi
(dal 28 aprile al 3 maggio); alla loro organizzazione erano
preposti gli "edili plebei".
E' stato così calcolato che a Roma c'erano,
in media, almeno 11 o 17 giorni di spettacolo all'anno. E questi
solo riguardo le occasioni suddette, che potremmo definire "ordinarie".
Il numero di "festività" è destinato invece ad accrescersi,
e di molto, se a quelle si aggiungono le numerosissime occasioni
"straordinarie" (che comprendevano naturalmente anch'esse
rappresentazioni teatrali), ovvero, ad es.: "ludi votivi",
per circostanze particolari dello stato; "ludi funebres",
per celebrare la morte di qualche illustre cittadino; "ludi triumphales",
per celebrare un trionfo militare.
A ciò si aggiunga, ancora, un fenomeno tipico
e particolare, quello della "instauratio": quando, cioè,
la celebrazione era viziata da qualche infausto imprevisto, o -
per un motivo o per un altro - non riusciva particolarmente bene,
era valutata la facoltà di "ripetere" letteralmente la festa,
con tutti gli annessi e connessi. E non raramente si utilizzò
cavillosamente questo escamotage per riproporre in "replica"
spettacoli e rappresentazioni, che avevano particolarmente entusiasmato
i Romani.
Esistevano, infine, anche compagnie di dilettanti
che, in occasione di celebrazioni religiose anche non ufficiali,
davano rappresentazioni in tutto il corso dell'anno, quindi anche
al di fuori delle scadenze previste dai vari "ludi".
...:::Bukowski:::...
|