Vita.
P. si dedicò solo ad un unico genere letterario,
alla composizione di commedie, operando - grosso modo - una
sintesi tra commedia greca nuova ed elementi indigeni, attinti dalla
farsa italica.
Sappiamo poco di P. uomo e le notizie che possediamo
[A. Gellio e S. Girolamo IV sec. d.C.] sono poco attendibili: nato
come attore di successo, avrebbe investito malamente il capitale
in commercio, ricoprendosi di debiti e costringendosi a guadagnarsi
da vivere in un mulino girando la macina.
In questo periodo cominciò a comporre commedie,
fra cui il "Saturio" ("Il pancia piena") e l’ "Addictus" (schiavo
per debiti), che già dai titoli richiamano gl'infelici rovesci
personali; e una terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate
con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale
durata oltre un quarantennio: alieno della politica, ma non insensibile
agli avvenimenti del tempo [la sua produzione si svolse, del resto,
praticamente durante la II guerra punica], visse interamente della
sua arte, praticata con instancabile fervore creativo: egli, insomma,
scriveva per vivere, la sua scrittura era non più che mera
professione.
Inoltre, Cicerone, nel "De senectute", afferma
che P. compose da "senex" alcune commedie fra cui lo "Pseudulus":
nel 191 a.C., doveva essere quindi già vecchio. Sempre Cicerone,
nel "Brutus", ci rivela l'anno della sua morte.
I codici, che contengono le commedie di P., ci
hanno tramandato il suo nome completo, Tito Maccio P.. Ma "Tito"
e "Maccio" sembrano fittizi: "Maccio", infatti, deriverebbe dall'omonima
maschera atellana; lo stesso termine "Plautus" può significare
o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". Molto probabilmente,
quindi, si tratta di nomi d’arte che P. aveva usato durante l’attività
di attore.
Le commedie: titoli, autenticità e possibili "ordinazioni".
Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta
una serie di commedie a suo nome, molte delle quali rivelatesi in
seguito dei falsi. Nel I sec. a.C., ne circolavano addirittura 130
titoli. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, le studiò
("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi:
- 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae
Varronianae");
- 19 di attribuzione incerta
- tutte le altre considerate spurie.
L’autorità di Varrone fu tale che si continuarono
a ricopiare solo le 21 autentiche. Tuttavia, da varie testimonianze
degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre
commedie sicuramente plautine, e oggi perdute: quali "Commorientes",
"Colax", "Gemini lenones", "Condalium", "Anus", "Agroecus", "Faerenatrix",
"Acharistio", "Parasitus piger", "Artemo", "Frivolaria", "Sitellitergus",
"Astraba".
Attraverso le relative "didascalie" (ossia
brevi notizie che i grammatici solevano dare, valendosi delle indicazioni
trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima
rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo esito), sappiamo
la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e dello
"Pseudulus" (191 a.C.): la cronologia delle altre è definibile
solo in base ad elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del
suo teatro dalla "farsa" ad una specie di "opera buffa" (va però
detto che nessuna ipotesi evolutiva generale s’è affermato
nettamente e definitivamente).
Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico,
questo potrebbe essere: "Asinaria" (212), "Mercator" (212-10), "Rudens"
(211-205), "Amphitruo" (206), "Menaechmi" (206), "Miles gloriosus"
(206-5), "Cistellaria" (204), "Stichus" (200), "Persa" (dopo il
196), "Epidicus" (195-4), "Aulularia" (194), "Mostellaria" (inc.),
"Curculio" (200-191?), "Pseudolus" (191), "Captivi" (191-90), "Bacchides"
(189), "Truculentus" (189), "Poenulus" (189-8), "Trinummus" (188),
"Casina" (186-5); in più la "Vidularia" pervenuta assai mutila.
Ovviamente, per quanto detto, le date riportate a fianco ai titoli
sono passibili di molti dubbi, essendo risultato di mere supposizioni.
Si ricordi inoltre che, nei codici, le commedie sono disposte in
ordine pressoché alfabetico.
Trame.
"Amphitruo" (Anfitrione), l’unica a soggetto
mitologico: Giove, invaghitosi di Alcmena, le si presenta sotto
le spoglie del marito Anfitrione, impegnato intanto in guerra, e
trascorre con lei una lunga notte d’amore. Mercurio accompagna Giove
e sta di guardia, assumendo le sembianze di Sosia, servo di Anfitrione.
Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna però Anfitrione,
che si fa annunciare da Sosia il quale, a sua volta, arrivato alla
reggia, s'incontra con Mercurio suo alter-ego. Da questa situazione
nascono una serie di inevitabili equivoci.
"Asinaria" (La commedia degli asini) Il
giovane Argirippo è innamorato di Filenio, figlia dell’avara
Cleareta che pretende in giornata la somma di venti mine, altrimenti
darà la figlia al rivale Diabolo. Sarà lo stesso padre
a venire in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di casa
di procurarsi il denaro a danno della sua ricca e avara moglie.
Uno dei servi fingerà di essere l’amministratore della padrona
e riuscirà a riscuotere le venti mine che un mercante deve
a quella per l’acquisto di certi asini. La commedia [dall' "Onagos"
di Demofilo] è giunta assai mutila e con un certo numero
di contraddizioni interne.
"Mercator" (Il mercante). E’ la commedia
della rivalità tra Demifone e Carino - padre e figlio - per
una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha condotto da Rodi dove
si era recato per commercio. Demifone - che ha avuto un sogno premonitore
della vicenda - fa comprare al porto la fanciulla dall’amico Lisimaco,
che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando
dell’assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna, l’equivoco
deve essere per forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto
al figlio. Deriva dall’ "Emporos" di Filemone.
"Rudens" (La gomena). Un lenone, dopo aver
promesso una bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da
cui ha ricevuto un lauto anticipo, decide di fuggire velocemente
durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta
fa naufragare la nave, che ributta sulla riva i partenti. La ragazza
si rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza
dal quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria
figlia. Segue naturalmente il riconoscimento: la ragazza, sottratta
all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e
sposare il suo innamorato.
Derivata da una commedia di Difilo, quest'opera
si svolge in un’atmosfera e in un ambiente diversi da quelli di
tutte le altre: basti dire che la scena, anziché la solita
piazzetta su cui s’affacciano le case dei principali personaggi,
ci presenta una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un ambiente
di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro ch'è
al principio del II atto (importante perché è l’unico
coro che si trovi nella Commedia latina). Quanto all’atmosfera,
il comico è quasi del tutto assente nel "Rudens", in cui
predomina al contrario un tono tra il patetico e il solenne, che
sfiora in qualche punto la tragedia.
"Menaechmi" (I Menecmi). E’ la gioiosa commedia
degli equivoci dovuti all’incredibile somiglianza di due gemelli,
Menecmo I e Menecmo II, separati fin dalla fanciullezza. La vicenda
si svolge ad Epidammo, dove Menecmo II è capitato nel corso
di un viaggio alla ricerca del fratello. Gli equivoci a ripetizione,
in cui sono coinvolti prima l’amica di Menecmo I, Erozio, ed il
suo cuoco, poi il parassita di Menecmo I, Penicolo, ed infine la
moglie dello stesso, conferiscono all’azione un’irresistibile tensione
comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci
si rivolge ormai ai medici, essi si trovano l’uno dinanzi all’altro
davanti alla casa di Erozio e tutto si chiarisce. La lunga serie
di peripezie rende questa commedia tra le più animate del
teatro classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute,
di botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni, senza un solo
attimo di stasi. Benché non si conosca l’originale greco
da cui essa sia derivata, si sa che una non piccola schiera di commediografi
greci (Menandro, Antifane, Posidippo, per non citare che i più
noti) s’ispirò a questo motivo dell’identità di due
persone. Del resto, il motivo non è nuovo neppure in P.:
si pensi solo al Mercurio-Sosia e al Giove-Anfitrione dello stesso
Amphitruo.
"Miles gloriosus" (Il soldato fanfarone).
Il giovane Pleusicle ama la bella Filocomasio. Durante un’assenza
del giovane, la ragazza viene rapita dal "miles" Pirgopolinice,
un soldato smargiasso e fanfarone, a cui il parassita Artotrogo
fa credere di essere irresistibile con le donne. Palestrione, servo
di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è
accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato
proprio al miles. Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione,
si fa ospitare da Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa
contigua a quella stessa del miles. Palestrione pratica una breccia
nel muro di confine tra le due case, consentendo agli amanti di
incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si baciano,
e costringe Palestrione a escogitare una serie di inganni per salvare
i due amanti, fingendo che esista una gemella di Filocomasio. Palestrione,
poi, organizza una feroce beffa ai danni di Pirgopolinice: gli fa
credere che la moglie di Periplectomeno sia pazzamente innamorata
di lui; il miles, così, licenzia in un sol colpo Filocomasio
e Palestrione, dando loro la libertà, ma - entrato nella
casa di Periplectomeno per un appuntamento galante - trova un marito
furibondo e i servi pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero.
Gran parte della trama proviene dalla commedia
greca "Alazon" ("Il vanaglorioso"), ma è probabile che P.
abbia largamente applicato la "contaminatio" [per cui, vd.
oltre], assumendo da un altro dramma il motivo del foro nel muro
e della sorella gemella.
"Cistellaria" (La cestella). Il giovane
Alcesimarco ama Selenio, una trovatella allevata da una cortigiana;
ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza, figlia del vicino
Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta molti
anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni.
Dopo varie vicissitudini, si scopre che la ragazza abbandonata è
Selenio, che ora Alcesimarco può sposare con l’assenso del
padre. Nonostante una lunga lacuna (più di seicento versi)
l’intreccio di questa commedia è abbastanza chiaro. L’originale
greco sembra di Menandro.
"Stichus" (Stico). Due sorelle da tre anni
non hanno più notizie dei loro mariti, partiti oltremare
per ricostituire un patrimonio in rovina. Il padre vorrebbe farle
risposare, ma le donne insistono per serbare la loro fedeltà.
Non manca un parassita, Gelasimo, che da tre anni patisce la fame.
Giunge finalmente in porto la nave dei due uomini, carichi di merci
e di ricchezze. Assieme a loro c’è anche il servo Stico,
che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si rappacificano
con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro affari.
Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e comicamente
continua a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo.
"Stichus" deriverebbe dall’ "Adelphoe" di Menandro.
"Persa" (Il persiano). Il servo Tossilo
riscatta dal lenone Dordalo una ragazza che ama. Poi traveste da
orientale la figlia di un parassita e finge di venderla allo stesso
Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare
il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone,
reo di aver comprato una ragazza libera. La commedia si conclude
con una grande festa, durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato
per la sua insipienza e Tossilo può giustamente trionfare.
E', per definizione, la "commedia degli schiavi", dei quali P. ha
saputo ritrarre linguaggio, licenziosità e malizie.
"Epidicus" (Epidico). Il giovane Stratippocle
s'innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al
"servus" Epidico l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario
a riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio
Perifane, padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha
bisogno. Ma quando i suoi raggiri stanno per essere scoperti, una
delle due ragazze viene riconosciuta figlia di Perifane e sorella
di Stratippocle, che ripiega dunque sull’altra cortigiana mentre
Epidico viene affrancato per meriti d’ingegno.
L’intreccio è più complicato del
solito. Ma l’interesse della commedia sta soprattutto nella figura
d’Epidico: il più abile, astuto, diabolicamente scaltro dei
servi che il teatro abbia mai dato.
"Aulularia" (La commedia della pentolina).
Un vecchio avaro, Euclione, ha trovato in casa sua una pentola piena
di monete d’oro. Per timore che gliela possano rubare, egli la nasconde
nel tempio della Buona Fede e successivamente nel bosco di Silvano.
Ma Strobilo, servo del giovane Liconide, avendo seguito le sue mosse,
se ne impadronisce. Il vecchio è fuori di sé dalla
disperazione, tanto più che Liconide confessa di aver messo
incinta Fedria, sua figlia, che egli aveva invece promessa in sposa
al vecchio Megadoro, suo vicino. Qui la commedia si interrompe,
ma la conclusione è scontata: in cambio dell’oro, Euclione
concede la mano della figlia a Liconide, che a sua volta darà
la libertà al servo Strobilo.
L’originale greco è ignoto, ma è
probabile che fosse una commedia di Menandro in cui l’avaro aveva
nome Smicrine.
"Mostellaria" (La commedia del fantasma).
Mentre il padre Teopropide, un ricco mercante di Atene, è
assente da lungo tempo per affari, il giovane Filolachete si dà
alla pazza gioia assieme all’amico Callidamate, assistito dall’ingegnoso
e sfrontato servus Tranione, che ha anche dovuto procurarsi un prestito
rilevante per riscattare la bella Filemazio, una cortigiana amata
dal padroncino. Torna inaspettatamente il padre, mentre è
in corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per impedire
a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata da
un fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito,
e Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il
denaro è servito a comprare un’altra abitazione. Teopropide
chiede di vederla, e il servo escogita nuovi geniali trucchi per
mostrargliela, ingannando anche il vero proprietario. Infine la
verità viene a galla, e solo l’intervento di Callidamate
che promette di soddisfare personalmente a ogni debito, salva Tranione
dall’irosa furia di Teopropide.
Si pensa che la "Mostellaria" derivi dal "Phasma"
di Filemone o di un autore minore, Teogneto.
"Curculio" (Gorgoglione o Pidocchio). Il
giovane Fedromo è innamorato della cortigiana Planesio e
cerca di riscattarla dal lenone Cappadoce con l’aiuto di Pidocchio.
Il parassita, che veste anche la parte del "servus currens",
scopre che un miles ha già comprato la ragazza, e ha depositato
presso un banchiere la somma pattuita: tale somma verrà pagata
a chi presenterà una lettera sigillata con l’anello del soldato.
Pidocchio, travestito da soldato, si impadronisce ai dadi dell’anello,
confeziona una falsa lettera e riscatta la ragazza. Nel frattempo,
sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia recitante, timoroso
di non rivedere più il vestito che ha prestato a Pidocchio.
Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello
del miles quello che era solito portare il padre, dal quale era
stata un giorno rapita: il soldato viene riconosciuto come suo fratello,
e Fedromo può felicemente sposare la donna.
La commedia prende il titolo dal parassita protagonista
Gorgoglione, il cui nome è tutto un programma d’insaziabile
voracità: il "curculio" è, infatti, il verme
roditore del frumento. Il "Curculio" contiene, inoltre, la famosa
"serenata dei chiavistelli " (atto I, scena III), che il
giovane Fedromo rivolge alla porta dell’amata, perché dischiuda
i suoi battenti.
"Pseudolus" (Pseudolo). Il giovane Calidoro
ama la cortigiana Fenicio, che il lenone Ballione ha già
venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più
cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Calidoro
si affida all’ingegno furfantesco e creativo del servus Pseudolo(=
ingannatore), che si mette all’opera, sgominando progressivamente
ogni ostacolo e vincendo addirittura un’impossibile scommessa con
Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto
a restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta
altre venti mine a Simia per un'altra scommessa perduta.
La commedia, una delle predilette dall'autore stesso,
è ben costruita e rivela la grande arte di P., nonché
l’abilità dell’autore (ignoto) dello stesso originale greco.
"Captivi" (I prigionieri). Durante una guerra
fra Elei ed Etoli, il ricco Egione ha perso il figlio, fatto prigioniero
dagli Elei. Per riscattarlo, acquista dei prigionieri Elei, con
lo scopo di operare uno scambio. Fra di essi, c’è il nobile
Filocratre con il servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare
le parti. Credendo di inviare in Elide il servo, Egione manda invece
il padrone. Scoperto l’inganno, getta in catene il povero Tindaro.
Ma Filocrate ritorna con il figlio di Egione ormai libero; in aggiunta,
si scopre che anche Tindaro è figlio di Egione, rapito in
tenera età e venduto come schiavo in Elide. "Captivi" è
una commedia "anomala" rispetto alle altre, priva com'è di
vicende amorose e fondata sul tema dell’amicizia e della lealtà:
non compare alcuna donna, particolare che in P. si ritrova solo
nel "Trinummus".
"Bacchides" (Le Bacchidi). Due sorelle gemelle,
entrambe di nome Bacchide ed entrambe cortigiane, vivono l’una a
Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco, di passaggio a Samo,
s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce tuttavia
un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. Mnesiloco
dà incarico di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo
averla trovata si fa sedurre dalla seconda Bacchide. Mnesiloco,
che crede di essere stato tradito dall’amico, dà intanto
al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro necessario per
riscattare l’amata: il servo per ben due volte riesce a spillar
denaro al padre di Mnesiloco. Gli equivoci si diradano e le situazioni
sembrano risolversi felicemente: i giovani Mnesiloco e Pistoclero
si ritrovano a banchettare allegramente con le due Bacchidi. Giungono
però furenti i due padri, decisi a trascinarsi a casa i figli
gozzoviglianti, ma anch’essi vengono "tosati" dalle due spumeggianti
ragazze e si abbandonano assieme ai figli ad un allegro festino.
Deriva dalle "Evantides" di Filemone o da "Il doppio
inganno" di Menandro.
"Truculentus" (Truculento). La commedia,
largamente lacunosa, prende titolo dal nome del rustico e brutale
schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore che è
vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato Stratofane,
della sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio. L’intreccio
si lascia intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane,
come fosse suo figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che
quello è invece figlio di Diniarco e di una libera cittadina
ateniese.
"Poenulus" (Il cartaginese). Rapiti in tenera
età nella loro patria, Cartagine, vivono a Calidone di Etolia
un giovinetto, Agorastocle, e le sue due cugine, Adelfasio e Anterastile:
ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le
due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello
sfruttatore Lico. Una ben architettata trappola, ordita da Milfione,
servo di Agorastocle, e recitata dal villico Collibisco, offre il
modo di citare lo sfruttatore in tribunale. Giunge frattanto da
Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone: egli
si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in casa
di Lico, dove può riconoscere e riabbracciare le figliole.
Modello della commedia è stato il "Carchedonios"
di Menandro. Una prima redazione del Poenulus doveva aver titolo
"Patruos" (Lo zio). E' interessante l'uso della lingua punica da
parte del giovane protagonista.
"Trinummus" (Le tre dracme). Mentre il vecchio
Carmide è in viaggio d’affari, il giovane figlio Lesbonico
continua a dissipare il suo patrimonio, e finisce per vendere perfino
la casa ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un
leale amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno
dell’amico un tesoro sepolto nella casa. Nel frattempo un altro
giovane, Lisitele, ama la sorella di Callicle, e chiede di poterla
sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo un giovane
di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare
in dote alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un
podere fuori città. Per evitare che tutto il patrimonio vada
perduto, Callicle inventa allora uno stratagemma: assolda un messo
a cui, appunto per tre dracme, dà l’incarico di giungere
in città fingendo di portare per conto di Carmide una somma,
che in realtà Callicle ha prelevato dal tesoro. Carmide è
inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a ricevere il
finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati
dal commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude
con due matrimoni: di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico
con quella di Callicle. L’originale di Filemone prendeva titolo
dal "tesoro" nascosto in casa.
"Càsina". Di Casina, una trovatella,
si sono invaghiti il vecchio Lisidamo e il figlio di lui, Eutinico.
Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro il proprio
scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi
stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio,
lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio, che conosce le
intenzioni del marito, prende le parti del figliolo assente. Poiché
Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere
alla sorte. Questa favorisce il fattore. Si preparano le nozze,
ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero,
travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della
stanza in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo.
Casina è certo tra le commedie più
"libere", più comiche e più riuscite commedie di P.
. Deriva da una commedia di Difilo, "Clerumenoe", cioè "I
sorteggianti".
"Vidularia" (La commedia del baule). I circa
120 versi superstiti di questa commedia lasciano intravedere un
intreccio simile al "Rudens": il giovane Nicodemo viene riconosciuto
dal padre per mezzo degli oggetti conservati in un baule, scomparso
in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore
Personaggi.
I personaggi di P. non sono dei caratteri individuali
ma delle maschere fisse, dei "tipi", e per questo già noti
al pubblico nel momento stesso in cui si presentano sulla scena:
anche i loro nomi propri servono esclusivamente a ribadirne la fissità
del ruolo scenico.
I personaggi maggiori. Questi i più
importanti:
*L’ "adulescens": il giovane innamorato è
sempre languido e sospiroso, perduto in un amore che lo travolge
e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra sul
suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri "alti"
e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici,
voluti dall'autore. P. non prende mai sul serio la sua storia né
i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo spesso
a subire i lazzi spiritosi del servus.
*Il "senex": il vecchio viene caratterizzato in
modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato, che
cerca inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescentes
(come nella "Mostellaria"); ma talvolta è anche un ridicolo
e grottesco concorrente dei figli nella battaglia, senza esclusione
di colpi, per la conquista della donna desiderata (come nell’ "Asinaria"
o nella "Casina"). Nelle vesti dell’amico o del vicino, ha a disposizione
un ricco ventaglio di funzioni drammatiche: può ad esempio
essere alleato dei giovani (come nel "Miles gloriosus") oppure fornire
un burlesco doppio del senex innamorato (come nel "Mercator").
*La "meretrix": minore importanza rivestono i ruoli
femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza
desiderata non compaia mai in scena (come nella "Casina") o svolga
una particina marginale. Il ruolo femminile più importante
è proprio quello della "cortigiana", una figura sconosciuta
in Roma prima che nascesse la palliata, e che era invece consueta
nel mondo greco: nella "palliata" plautina possono essere sia libere
che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che
le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro
più grande desiderio è quello di essere riscattate
dall’amante. Naturalmente, l’espediente dell’ "agnizione" (per cui,
vd oltre) può consentire loro il felice passaggio dalla condizione
di amanti a quella di spose. Alcune di loro, poi, sono abilissime
e sfrontate (come nel "Truculentus"), altre dolci e sensibili (ed
è questo il caso più frequente).
*La "matrona": accanto alla figura dell’etera,
risalta per contrasto quella della matrona, madre dell’adulescens
e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto
se "dotata" (cioè provvista di dote). Accade che spesso il
senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’ "Asinaria").
Non manca qualche eccezione: la nobile figura di Alcmena nell’ "Amphitruo"
o le due spose fedeli nello "Stichus".
*Il "parasitus": presente in ben nove commedie
di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi
della "palliata", caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla
rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per
il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante
e vitale nella sua mai placata ingordigia, il parassita non lesina
lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi
benefattori, che naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti
battute, come accade nella famosa scena d’esordio del "Miles gloriosus".
*Il "miles gloriosus": come la cortigiana, anche
il miles, il soldato mercenario che si mette al servizio di chi
lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma
sconosciuta in Roma, dove all’epoca di P. il servizio militare era
dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle
vesti del "gloriosus", cioè del millantatore, del fanfarone
che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta
per gran seduttore: è insomma un conquistatore immaginario
di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti della
commedia. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici,
si sentissero - per contrasto - orgogliosi del proprio valore militare.
*Il "leno": anche il lenone, il commerciante di
schiave e sfruttatore di prostitute, era una figura sconosciuta
presso i Romani. P. ne fa la figura più odiosa, anche perché
di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei desideri
del giovane innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro plautino
non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste
una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già
scontate fin dall’inizio: l’odiosità, come l’avidità,
sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone,
irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce
molto di più, invece, la sua formidabile vitalità,
la sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale,
come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e servus
ingaggiano contro di lui dello "Pseudolus".
*Il "servus": è la figura più grandiosa,
il vero motore delle fabulae plautine, personaggio sfrontato e geniale,
spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens
e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità dei
formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; la storia,
anzi, è quasi sempre il risultato delle sue invenzioni e
delle sue creazioni: P. lo definisce in vari luoghi come un "architetto"
(Palestrione, nel "Miles Gloriosus"), un "poeta" (Pseudolo, nello
"Pseudolus"), un "generale" (ancora in riferimento a Pseudolo e
Palestrione), finendo palesemente per identificarsi nella sua figura.
La sua ingegnosità è accompagnata
da una lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che
non risparmia niente e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il
quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone: la
sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni,
la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse,
naturalmente sempre vinte; su di lui incombe perennemente la minaccia
delle sferze e delle catene, gli strumenti di punizione dello schiavo,
a cui tuttavia il servo plautino risponde con la forza superiore
dei suoi geniali raggiri. Fiero e orgoglioso delle proprie mosse,
si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale
di chi ambisce a un applauso (un tipico esempio, questo, della tecnica
"metateatrale" del nostro autore, per cui vd. oltre).
P. ce ne dà anche un ritratto fisico, che
corrisponde convenzionalmente alla sua maschera: "rosso di pelo,
panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi
vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi" ("Pseudolus", 1218-1220).
La deformità mostruosa del fisico sembra una sfida al destino,
e un segno della vitalità trionfante del teatro plautino,
che rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i servi
trionfano sui padroni e i figli sui padri, sovvertendo ogni codice
sociale e facendosi beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto
che gli schiavi sono più vicini agli animali che agli uomini.
Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio
(spesso osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco
nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più intelligente,
e risulta perciò anche il più simpatico, quello per
il quale il pubblico "tifa" fin dall’inizio della rappresentazione.
Il ruolo del "personaggio" Fortuna. E' importante,
però, ricordare che niente riuscirebbe al servo, o alla sua
astuzia, senza l'ausilio determinante della "fortuna" (Tyche),
che ne contempera - e di molto - il merito del successo, contribuendo
- col suo "valore stabilizzante" - a "rimettere le cose a posto".
I personaggi minori. Non mancano, accanto
ai ruoli principali, altre figura occasionali: la ruffiana ("lena"),
una sorta di doppio femminile del "leno", per lo più rappresentata
come vecchia e beona; l’ancella ("ancilla"), servetta al seguito
della "meretrix" (più spesso) o della matrona, quasi sempre
complice negli affari delle sue padrone; il "cocus", il più
delle volte ingaggiato per luculliani banchetti; il "puer", lo schiavetto
generalmente a ruoli di contorno; l'usuraio ("fenerator"), sempre
pronto ad entrare in scena nei momenti più inopportuni per
riscuotere del denaro, naturalmente prestato per riscattare una
cortigiana; la citarista ("fidicina"); il "medicus".
Considerazioni sulla poetica e sullo stile.
La particolarità degl'intrecci. Come
visto, gl'intrecci delle commedie plautine derivano da originali
greci, sono abbastanza complicati, ma altrettanto ripetitivi e caratterizzati
da elementi convenzionali; 16 su 20 presentano infatti la stessa
situazione di base: l'amore ostacolato di un adulescens per una
giovane cortigiana: l’ostacolo è la mancanza di denaro (l’adulescens
dipende economicamente dal padre) per ottenerne i favori o per "riscattarla".
Può essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza
dote, e, in questo caso, gli ostacoli sono gli impedimenti sociali
che ne derivano. L’adulescens lotta (ancora) per far trionfare l’amore
contro qualche antagonista, il padre, il lenone o il miles gloriosus,
il mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta, egli viene
aiutato da un amico, da un vecchio comprensivo o da un parassita,
ma, soprattutto dal "servus callidus" (scaltro). Spesso la
commedia si risolve in una serie di inganni organizzati da quest'ultimo
per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario all’adulescens.
Ogni commedia termina con un lieto fine: i giovani vengono perdonati
dai padri, che si riconciliano anche con i servi; i danni e le beffe
spettano ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles e il
lenone. Spesso il lieto fine coincide con il matrimonio, che è
reso possibile dal "topos" dell' "agnizione" o "riconoscimento":
si scopre infine che la ragazza era nata libera da genitori benestanti,
ma esposta o rapita dai pirati.
Il "rimettere le cose a posto" e lo "straniamento".
Come si vede, in generale lo scioglimento tipico consiste in un
"rimettere le cose a posto"; ed è chiaro che il pubblico
trova in questo movimento dal disordine all’ordine un particolare
piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo
in scena – al di là degli estrinseci dettagli esotici, che
garantiscano un adeguato "straniamento" (P. ci tiene a sottolineare
che ciò che avviene sulla scena è solo finzione, solo
gioco, e vuole scongiurare il più possibile il "transfert"
degli spettatori, ricorrendo nella "Casina" o nel "Mercator" o altrove
ad opportuni esempi di "metateatro") – è perfettamente compatibile
con l’esperienza problematica e quotidiana della Roma del tempo.
Tuttavia, ed è importante, sia chiaro che (come accennato)
nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende
tipiche.
I riferimenti alla romanità. Frequenti,
di contro, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., nelle
similitudini e nelle metafore di tipo militare: il servo presenta
spesso la sua lotta contro i suddetti "antagonisti" come una battaglia
o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso. Ciò
non stupisce in testi scritti in un periodo storico in cui Roma
passava vittoriosamente da una guerra all’altra, anche se, in verità,
non c’è traccia dei grandi avvenimenti dell’epoca: Canne,
Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria, l’Etolia. C’è
chi ha voluto vedere qualche allusione storica in alcuni passi,
ma si tratta, comunque, di accenni vaghi e velati, tanto che si
può dire che P. si mantenne sostanzialmente lontano dai grandi
affari di stato, e cercò altrove motivi ed ispirazione per
le sue commedie.
Il rapporto coi modelli e la "contaminatio".
Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie
plautine, per cui non possiamo valutare l’indipendenza, l’originalità
di P. rispetto ai modelli greci.
Tuttavia, una delle differenze fondamentali che
comunque possiamo cogliere con la commedia di Menandro (ma modelli
altrettanto validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto
concerne le trame, è che, mentre quello cerca la coerenza
e l’organicità degli intrecci, P. sacrifica al contrario
spesso le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento
di trarre effetti comici dalla singola scena. Altra differenza è
che il teatro di Menandro è un teatro grosso modo
antropocentrico e "psicologico", mentre P. è portato ad accentuare
i tratti caricaturali dei personaggi tipici, ricavandone maschere
grottesche. Lo stesso "amore" non è visto come sentimento
autentico, bensì come mera caricatura. Si parla, anche, di
"rovesciamento burlesco della realtà", in una visione quasi
carnascialesca: alla fine della commedia, sono i giovani a trionfare
sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò, ancora, P. non
vuole mettere in discussione i rapporti vigenti all’interno della
società, vuole solo, semplicemente, far divertire.
Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo
alla sua attività, parla poi di "vertere barbare"
("tradurre dal greco al latino"): infatti, P. fa suo il punto di
vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara.
Le commedie plautine, tuttavia, come si può arguire, non
sono semplici trasposizioni dal greco, ma libere interpretazioni
di quei modelli: egli, infatti, ricorre alla cosiddetta "contaminatio",
inserisce cioè in una commedia derivata da un originale greco
una o più scene, uno o più personaggi attinti da un’altra
commedia sempre greca, mescolando insomma l’originale con altre
commedie [secondo alcuni critici, p. addirittura "contaminava" se
stesso, ovvero ripeteva, con modificazioni e varianti, alcuni motivi
dei suoi stessi drammi, che a lui maggiormente piacevano e il cui
successo era già stato da lui sperimentato].
La funzione della musica. Altra prova dell’originalità
di P., è il fatto che egli dà molto spazio alla musica
e al canto (circa i due terzi del numero complessivo dei versi prevedevano
il suono del flauto), mentre nelle commedie di Menandro sono molto
scarse le parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P.
troviamo i "cantica", metri lirici cantati e altre parti
in versi o metri lunghi recitati e accompagnati dal flauto. Nella
metrica, insomma, P. è un maestro: egli foggia, seguendo
le necessità della lingua latina, i già noti senari
giambici e versi quadrati in varietà di forme, peraltro sottomesse
a sottili regole. La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme
del "deverbium" (parti recitate senza accompagnamento) e,
come detto, del "canticum" (recitativo accompagnato), alternate
con estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva
parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Particolarmente
rilevante, così, è la presenza delle parti liriche
e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci: esse occupano
complessivamente circa 3000 versi, cioè un settimo del totale,
e avevano la funzione di dar rilievo, con il contributo determinante
del ritmo e della musica, ai momenti di più forte concitazione
e di più intensa emotività. E’ probabile, comunque,
che il potenziamento dell’elemento lirico-musicale sia stato stimolato
dalla consuetudine e dalla predilezione del pubblico romano per
i tipi di spettacolo in cui la musica, il canto e la danza avevano
un ruolo fondamentale. [A tal proposito, invito ad integrare opportunamente
questa parte con le considerazioni generali relative al teatro romano,
che si trovano nell'apposito capitolo].
L'atteggiamento "antigreco". Un altro aspetto
del teatro plautino è l’atteggiamento nei confronti dei greci:
è significativo, a riguardo, un passo del "Curculio", in
cui l'omonimo protagonista, egli stesso greco, pur parla male dei
Greci: sta attraversando una via e gli danno fastidio questi Greci
che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo
coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le
osterie in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino.
È chiaro che P. sfrutta a fini comici quel sentimento di
ostilità nei confronti dei Greci, tipica di una parte della
società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. P.
conia addirittura un verbo, "pergraecari", che significa
più o meno "gozzovigliare alla greca", vivere in modo
dissoluto, proprio come farebbero i Greci. Alcuni studiosi hanno
inserito per questo motivo il teatro plautino nell’entourage
catoniano, ma questa posizione pare però poco sostenibile,
dato che il nostro, come visto, vuole solo "risum movere",
e non schierarsi politicamente, rinunciando a trasmettere qualsiasi
tipo di messaggio.
L'essenza definitiva della comicità plautina.
In ultima analisi, volendo azzardare una schematizzazione, si può
affermare che la comicità plautina può essere di 3
generi:
1. di situazione: basata, cioè, sugli
equivoci e sugli scambi di persona, con successiva "agnizione",
che porta al lieto fine;
2. di carattere: basata sull’accentuazione
caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;
3. bassa: basata su battute volgari e sull’esasperazione
di sentimenti naturali.
E' ovvio che le commedie, che rispettano tutt'e
tre le condizioni sovresposte, risultano essere quelle meglio riuscite
e più gradite al pubblico: e, quindi, in prima linea, l’"Amphitruo"
e lo "Pseudolus".
La lingua. Come visto, la tecnica linguistica,
che si piega genialmente in battute e motteggi, riveste un ruolo
fondamentale nell'economia della comicità plautina: l'autore
la riempie spesso di espressioni greche o grecizzanti, quando addirittura
non rinuncia, come accennato in "Poenulus", a servirsi di idiomi
perlomeno inusitati, come il punico. A ciò, si aggiungano
parole mezzo latine e mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole
alle orecchie del pubblico (ad es. "pultifagus" = "mangiapolenta"),
grecismi con terminazione latina ("atticissare" = "parlare
greco"), parole formate da più radici ("turpilucricupidus"
= "desideroso di turpi guadagni"), oltre a neologismi veri
e propri ("dentifrangibula", riferito ai pugni che "rompono
i denti"; "emissicius", che si manda alla scoperta di qualcosa
e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi
iperbolici e ridicoli ("ipsissimus", stessissimo; "occisissimus",
uccisissimo). Il sermo dei personaggi plautini è inoltre
arricchito da fantasmagorici giochi di parole, identificazioni scherzose
(ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?"
"Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando gli occhi!"
Asin.619), espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su
un piano più propriamente stilistico, da allitterazioni,
anafore ed ogni sorta di figura retorica.
Malgrado queste caratteristiche, tuttavia, la lingua
di P., eccezion fatta naturalmente di alcuni tratti particolari
(per es. dei discorsi degli schiavi), non è quella del volgo
e del popolino, ma risente di una certa raffinatezza, che derivava
dalle discussioni del Senato, dalle assemblee del popolo e dei tribunali,
e per la quale essa s'innalzava sul livello della parlata popolare,
pur conservando di questa la schiettezza e la spontaneità:
una lingua, insomma, non propriamente popolare, ma che il popolo
altresì capisce ed apprezza.
I "numeri innumeri". Fondamentale, infine,
la maestria ritmica, i "numeri innumeri", gli "infiniti metri",
la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva una conseguenza
importante: lo stile è intrinsecamente vario e polifonico,
ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, in una forte profonda
coerenza. Insomma, si deduce che P. non dipende esclusivamente dallo
stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà
sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione
della divisione in atti, completa trasformazione del sistema onomastico.
"Musas plautino sermone locuturas fuisse, si
latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi
in latino avrebbero parlato con la lingua di P."): così Quintiliano,
nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico
di Elio Stilone, il primo grande filologo latino del II sec. a.C.
. Per non dimenticare, poi, l’epitaffio del poeta citato da Gellio
(che lo aveva letto negli scritti di Varrone) dove si dice che,
alla morte di P.: "numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt"
("scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli").
Nota metrica. <<Nelle commedie plautine sogliono
distinguersi tre parti fondamentali, che ovviamente si ripetono
più volte nel corso di una stessa commedia. Le tre parti
sono: diverbium, recitativi, cantica.
Si intendeva per diverbium il dialogo, ma rientravano nella definizione
anche il Prologo e eventuali monologhi, purché si trattasse
di parti che dovevano essere recitate con tono di voce normale,
senza intonazione ritmica, forse anche nel senso che non doveva
sentirsi il ritmo del verso. L'uso più frequente del diverbium
si aveva in tutte le scene lineari e di scarsa animazione, nelle
quali praticamente si poteva giungere ad un linguaggio prosaico,
che l'arte degli interpreti doveva poi valorizzare.
Per recitativi si intendevano invece le parti declamate, quelle
cioè nelle quali si faceva maggiormente risaltare il ritmo
del verso, anche attraverso un accompagnamento musicale, a livello
di sottofondo, che veniva eseguito tra le quinte. Per intenderci,
si potrebbe pensare a quelle parti del melodramma moderno che si
indicano appunto come recitativi, nelle quali il rapporto fra la
parola e la musica diventa meno vincolante ed immediato, limitandosi
la musica a fornire, in un certo senso, il tessuto ritmico sul quale
la frase musicale recitata deve porsi.
I recitativi ricorrevano nelle scene di maggiore animazione, quando,
comunque, all'autore sembrava opportuna una certa apertura lirica.
I Cantica sono infine le parti musicali vere e proprie, nelle quali
il rapporto parola-notazione musicale è diretto e vincolante.
In generale si trattava di monologhi, o, con termine musicale, monodie.
Poiché non sempre si verificava la fortunata coincidenza
che l'attore fosse anche dotato musicalmente, poteva accadere che
il Canticum fosse interpretato fra le quinte da un cantore specialista,
mentre l'attore sulla scena si limitava alla mimica del canto.
Ognuna di queste tre parti si esprimeva in una particolare e costante
forma metrica.
Il diverbium era solitamente scritto in senari giambici, che però
ammettevano molte sostituzioni. Si poteva trovare al posto dei giambi
(U _ ) un anapesto (U U _ ) o un dattilo ( _ U U) o un proceleusmatico
(U U U U). Anche se non capitava che in un verso si ritrovassero
tutte queste sostituzioni contemporaneamente, accadeva comunque
che lo schema del senario risultasse molto vario, tanto che il numero
delle sillabe, che nello schema originario dovrebbe essere di dodici,
poteva arrivare anche a più di quindici sillabe. Del resto
la difficoltà di interpretare metricamente un senario plautino,
si intenderà ricordando che, fino agli studi del Ritschl,
non s'era creduto di poter riconoscere alcuna regola nella metrica
plautina.
Il verso prevalente nei recitativi è invece il settenario
trocaico, detto anche tetrametro trocaico catalettico. Purtroppo
anche lo schema di questo verso fu da Plauto variato sensibilmente,
con la sostituzione dello spondeo al trocheo, e successivamente
con l'introduzione anche qui di dattili, anapesti o proceleusmatici.
In questo caso la maggiore varietà ritmica trovava una sua
giustificazione nella necessità di stabilire in qualche modo;
una corrispondenza con il sotto fondo musicale.
Per quanto riguarda i Cantica, che come abbiamo detto c’erano
veri e propri “pezzi” musicali, dai quali la recitazione
risultava, in un certo senso interrotta, i metri usati furono numerosi
e diversissimi. Comunque, in generale si trattava di composizioni
aventi a base due piedi fondamentali: il cretico ( _ U _ ) e il
bacchico (U _ _ ). Naturalmente, qui come non mai, la fantasia ritmica
plautina si sbizzarrisce nelle sostituzioni più ardite, alternando
anche ai versi aventi a base cretici e bacchici, altri versi, come
settenari giambici, ottonari giambici, ottonari trocaici, dimetri,
trimetri e tetrametri anapestici. L'effetto, comunque, era artisticamente
valido, in quanto i cantica attraverso la molteplicità dei
ritmi, raggiungevano una musicalità e vivacità gradevolissima.
La proporzione esistente fra le tre parti nella commedia plautina
varia, tanto che alcuni studiosi hanno ritenuto di poter su di essa
fondare un criterio per la valutazione cronologica delle commedie
stesse, ritenendo che l'aumentare delle parti più strettamente
recitate segnasse una più bassa datazione della commedia.
Il criterio ha un suo coefficiente di validità, soprattutto
se applicato non disgiuntamente da altri più ampi criteri
di datazione>> [A. Portolano].
Conclusione. Allora, la comicità originale nasce
proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di
"occasioni" in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa
"lirismo comico" (Barchiesi), in una sfuriata di digressioni esilaranti,
battute salaci e/o beffarde, dialoghi scoppiettanti.
...:::Bukowski:::...
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