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Decimo Giunio Giovenale

--- Aquino, 50/65 – 140 ca d.C. ---

 

Vita.

Biografia incerta. Della biografia di G. ignoriamo quasi tutto: ciò che è possibile ricostruirne non può che reggere su ipotesi, le quali del resto si possono dedurre dalla sua stessa opera (a meno che non si tratti, nei brani dove si pensa di cogliere un'allusione, di semplici finzioni letterarie).

Così, adottato da un ricco liberto, G. fu probabilmente soldato e poi maestro di scuola, prima di redigere, a Roma e già in età avanzata (forse quarantenne), le 16 "Satire" che compongono la sua opera. Forse esercitò l’avvocatura, ma probabilmente con scarso successo. Non mostra amare, invece, la filosofia.

La triste condizione di "cliens" e l'esilio. Il nostro poeta visse nella disagiata condizione di "cliens", come il suo amico Marziale (ha contatti anche con Stazio e Quintiliano): ma forse questa condizione <<non si identifica necessariamente con uno stato di vera indigenza, anche al di là delle lamentele spesso esagerate (per gioco o per patetismo) […]; in realtà, il disagio espresso dal "cliens" giovenaliano nasce dal trovarsi egli stretto, in una condizione imbarazzante, fra l'ambiente del "patronus" ricco e gli strati inferiori della società, che egli considera feccia>> [Bellandi]. G. conobbe anche rovesci di carriera, o per lo meno si creò delle inimicizie (forse proprio a causa delle allusioni più o meno esplicite contenute nella sua opera): per questo motivo, a 80 anni, sarebbe stato fatto governatore dell'Egitto dall'imperatore Adriano (in realtà, si sarebbe trattato di un esilio). E lì sarebbe morto, di sicuro dopo il 127 (ultimo accenno cronologico rinvenibile nelle sue satire).

Opera.

La raccolta. G. scrisse "Satire"(100-127 d.C.?), in esametri, in numero di 16 (l’ultima è incompleta) e per un totale di 3870 versi ca., pubblicate – forse da lui stesso – in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando cioè il clima politico lo permise; le satire sono disposte nella raccolta in ordine cronologico: 5 nel I libro, 1 nel II, 3 nel III e nel IV, 4 nel V.

I contenuti. Eccone brevemente i contenuti:

- nella I satira, proemio programmatico, il poeta critica le inutili pubbliche declamazioni e afferma che piuttosto il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge a scrivere, e che però, per evitare le più che certe reazioni violente degli uomini del suo tempo, parlerà dell’immoralità dei tempi passati (l'ambientazione abbraccia principalmente l'età giulio-claudia e l'età dei Flavi);

- la II bersaglia l’ipocrisia in generale, l’omosessualità in particolare (come la IX): sono chiamati in causa anche gl'imperatori Ottone e Domiziano;

- la III parla di Umbricio, amico di G., costretto ad allontanarsi da Roma e a preferire la provincia perché non resiste al caos e allo spettacolo dei vizi che la inquinano (di cui causa non minore sono gl'immigrati greci);

- la IV, sferzante, è contro la cortigianeria e lo stupido uso del potere (in particolare, vi si narra la famosa storia di un grosso rombo che si fa pescare per essere offerto a Domiziano, il quale convoca un consiglio di militari per decidere in che modo cuocerlo);

- la V descrive l’umile condizione dei "clienti" (cui è preferibile addirittura l'accattonaggio) e l’arroganza dei padroni durante i banchetti (cui contrappone il proprio, frugale, nell’ XI);

- la VI, la più lunga (661 vv.) e certamente la più famosa, costituisce un attacco veemente contro i vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini che siano (è la satira che, tra l'altro, ha fatto passare alla storia la moglie dell’Imperatore Claudio, la famigerata Messalina, come esempio di donna dissoluta e depravata);

- la VII depreca la triste condizione dei letterati e degli intellettuali, in tempo di assente mecenatismo (solo il principe può porvi rimedio);

- l’ VIII afferma che l’unica vera nobiltà è quella dell’anima, che agisce secondo virtù e che è lontana dagli eccessi (com’è ribadito nella X, in cui - in particolare - G. ironizza sui falsi beni che gli uomini son soliti chiedere agli dei);

- la XII esprime la gioia del poeta perché il suo amico Catullo è scampato da un naufragio; ma oggi in roma, infestata com'è dai cacciatori d'eredità, nessuno può capire ed apprezzare la sua felicità disinteressata;

- la XIII consola l’amico di G., Calvino che, fiducioso, ha prestato denaro che poi non gli è stato restituito: è un fatto normale oggigiorno, e la punizione arriva sempre tardi;

- la XIV tratta della responsabilità dei genitori nell’educazione dei figli, da attuarsi non con l’imposizione, ma soprattutto tramite l’esempio; al cattivo esempio dei contemporanei, poi, è decisamente preferibile la moderazione dei buoni tempi antichi;

- la XV prende spunto da un episodio di cannibalismo verificatosi in Egitto nel 127 per attaccare superstizione e fanatismo religiosi;

- la XVI, come detto frammentaria, elenca infine i privilegi della carriera militare.

Considerazioni.

Satira "necessaria" di un provinciale contro il "sistema". G. non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione: la sua satira - ispirata in particolare a Lucilio ed Orazio, ma non aliena dalle suggestioni della diàtriba cinico-stoica - si limiterà a denunciare, a gridare la sua protesta rancorosa ed astiosa ("indignatio", placata - apparentemente? - solo verso la fine, a partire dalla satira X, e soprattutto nelle XV e XVI), senza coltivare illusioni di riscatto, rifiutando in toto la connotazione consolatoria del pensiero moralistico tradizionale romano.

L’invettiva e il sarcasmo di G., allora, sono rivolti contro tutto il "sistema" (soprattutto nei suoi gangli rappresentativi), quel sistema che lo ha emarginato (il "democraticismo" del poeta è così solo apparente) e che gli fa rimpiangere, ed idealizzare, la tradizione nazionale e repubblicana, coi suoi valori morali e politici, oramai mortificati. La scelta programmatica del genere satirico è, quindi, per il poeta una necessità, dettata dall'ipocrisia e dai vizi che lo circondano (ai suoi tempi, egli dice francamente, "difficile est saturam non scribere"), anche se - come già detto - ambienti personaggi e soggetti sono scelti, con molta cautela, dal periodo precedente.

Nella civiltà che gli sta intorno, G. ha - ad es. - in orrore tutto ciò che non è "romano", nella buona tradizione del termine: detesta gli orientali, l'ellenismo, i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottrae ai romani le proprie conquiste. Ma non detesta meno i senatori che non hanno il coraggio di opporsi al tiranno, o le donne che si fanno beffe della fedeltà coniugale e rendono la vita del proprio marito un lungo martirio. In ogni modo, combatte con pari vigore tanto i vizi (di cui talora pur sembra avvertire il pericoloso fascino) e le semplici forme di ridicolaggine, la donna che pratica aborti come la pedante.

Il ruolo "scioccante" della retorica. Per cui ci si può chiedere fino a che punto queste satire non siano anzitutto delle "amplificazioni", espressioni volontarie di estremismo, che non meritano di essere confuse con delle testimonianze obiettive (anche se, indubbiamente, ci propongono un grande affresco dell'epoca). Le "Satire" recano difatti, e in modo forte, l'impronta della retorica: declamatore, G. lo è per i temi che affronta ("luoghi comuni" sui costumi del tempo, la povertà, la ricchezza, ecc, topoi in cui più evidente è l'influsso della diàtriba), e più ancora per il tono che lo distingue, fatto di una virulenza appassionata che si propone di "aggredire" e "scioccare" il lettore e di un'eloquenza che hanno contribuito a modificare fortemente l'evoluzione del genere satirico. E alla violenza dell’ "indignatio" (e alla mostruosità del mondo che ne è oggetto) s’addice - quasi per contrasto - un’altezza di tono e una grandiosità di stile che accostano la satira - rivoluzionariamente - alla tragedia, analogamente "sublime".

G. vero poeta? G., dunque, <<sceglie un tema da trattare, e si fa trascinare da esso; il flusso talvolta tumultuoso delle idee non gli fa badare al loro svolgimento e gli impedisce di seguire un filo di rigoroso ragionamento, giacché questo si spezza per seguire concetti diversi, sicché si perde di vista il punto di partenza […]. Perciò [egli] non è, forse, un grande poeta; eppure l'opera sua non manca di grandezza. Gli manca invece la levigatezza e la morbidità del verso, l'arte dei passaggi, che favorisce il nesso dei pensieri; i suoi stimoli vengono sempre dal di fuori, costringendolo a seguire con l'immaginazione le cose brutte di questo basso mondo, senza mai un respiro di aria fresca e pura, senza il riflesso di qualche cosa di più elevato, che rassereni l'animo del poeta e dei suoi lettori>> [Terzaghi].

Massime famose. Infine, di G. sono i celeberrimi detti - passati oramai nel comune odierno buon senso - che vanno dall’ottimistica "mens sana in corpore sano" agli amari "quis custodiet ipsos custodes?" e "panem et circences" di cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi d’altro, secondo lui, appunto che di mangiare e divertirsi.


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