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Publio Papinio Stazio

--- Napoli 45 ca – 96 d.C. ---

 

Vita.

Figlio di un maestro di retorica (elemento non trascurabile, questo, nella sua formazione poetica), S. incarna - forse più di altri - la figura del poeta "professionista". Si trasferì a Roma per tentare la fortuna durante l'impero di Domiziano e, in breve tempo, effettivamente si guadagnò – nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche - il favore del pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi protettori.

D'ingegno duttile e versatile, in questo primo periodo compose libretti per mimi e, oltre al suo primo poema epico, la "Tebaide", alcune "Silvae", componimenti lirici di circostanza in uno stile facile ed elegante. Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante le preghiere insistenti della moglie Claudia, una musicista, decise di abbandonare la città per far ritorno in Campania. Vi condusse lo stesso genere di esistenza di poeta mondano al servizio dei nobili romani, che in quella regione approdavano in massa per i loro soggiorni primaverili ed estivi.

In questo periodo della sua attività, scrisse altre "Silvae" e una seconda epopea, l' "Achilleide", che non gli fu però possibile portare a termine.

Opere e considerazioni.

"Tebaide" (pubbl. nel 92). E’ in 12 libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle e Polinice per la successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è mitologico, dotato di un complesso apparato divino, la vera sostanza del contenuto riporta irresistibilmente verso la "Farsaglia" di Lucano).

In un insolito epilogo programmatico, S. dichiara poi di avere un modello altissimo, anche se preso coi dovuti rispetti: l "Eneide", di cui le due esadi riproducono fedelmente la metà iliadica di preparazione e quella odisseica.

In verità, i modelli poetici sono legione: S. dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Antimaco di Colofone e Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici o di loro riassunti. Talora (oltre che l’Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti: Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco (e gli alessandrini in genere); infine, lo stile narrativo e la metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del mondo dell’influsso di Seneca, da cui mutua anche, volendo, il gusto dell'orrido e la tendenza al patetico (caratteristiche comunque comuni alla letteratura del tempo).

Insomma, proprio qui - ovvero nel contrasto tra fedeltà alla tradizione virgiliana e le inquietudini modernizzanti - sta il vero centro dell’ispirazione epica di S. . Tuttavia, nonostante tale costellazione di influssi, e nonostante l'abbondanza di episodi minuti e di "miniature" sentimentali o pittoresche, l’opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico sono piuttosto gli ossessivi "corsi e ricorsi" a motivi e atmosfere: tutta la storia risulta, ad es., dominata da una ferrea "necessità universale" (la cui funzione è enfatizzata in un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le cose, gli uomini e le stesse divinità (è qui che S. si avvicina invece più a Lucano).

"Achilleide" (interrotta all'inizio del II libro per la morte del poeta). Poema epico sull’educazione e le vicende della vita di Achille: ma la narrazione giunge fino alla partenza dell'eroe per Troia. Il tono è più disteso ed idillico che nella barocca "Tebaide", benché nell'opera tutta si evidenzi una forte accentuazione della componente etica.

"Silvae" ("schizzi", ovvero materiale grezzo necessitante di rifinitura; ma in realtà l'opera risulta, a suo modo, già elaborata e perfetta: dunque, il titolo va forse più propriamente riferito al carattere "occasionale", estemporaneo, dei componimenti). E' una raccolta di 32 poesie, scritte tra l'85 e il 95 d.C., in 5 libri di metro vario (dall’esametro ai versi lirici), di temi appunto occasionali (epitalami, descrizioni di ville e di terme, di statue e di altri oggetti artistici, epicedi, epistole poetiche, invocazioni…) e di tono molto spigliato e spontaneo, nonostante la ricchezza di "topoi" retorici. Esse ci hanno conservato preziose immagini dell’alta società romana del tempo (della sua "mentalità") e dell’ambiente di corte: il poeta si propone quasi quale "supervisore" sistematico dei pubblici sentimenti o si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità (deriva da ciò la patina cortigiana e conformistica di tutto l’insieme).

E' forse proprio qui, quindi, che S. dà prova d'essere veramente un poeta erudito, un cantore della poesia sentimentale e preziosa, addirittura "estetizzante" (a suo riguardo, qualche critico ha parlato di "retorica della dolcezza").


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