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Ovidio


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Aulo Persio Flacco

--- Volterra, 4 dic. 34 d.C. – Roma, 24 nov. 62 d.C. ---

 

Vita.

La nascita e gli studi. P. nacque da famiglia agiata e appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura dalla madre, Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13 anni, ad educarsi presso le migliori scuole di grammatica e retorica: ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a segnarlo fu l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto (liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di Lucano), che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato (P. legò soprattutto con Tràsea Peto).

La formazione interiore. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P. fu amorevolmente circondato dalle cure della madre, ma anche di altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore, moglie di Tràsea Peto, e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio Statura, Lucano, Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio Noniano e i già citati Tràsea Peto e Cornuto (per lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia.

L’isolamento. La naturale introversione e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale aveva scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che mostrò di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure (ma tardi) conobbe: tuttavia, è difficile stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad una scelta per così dire "estetica" ed etica, o se non vi sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento "politico" di rifiuto della realtà che lo circondava.

La morte. P. morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia. Lasciò in eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) – nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé i libri, mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta.

Opere.

Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti al testo delle "Satire", che probabilmente va fatta risalire all’erudito Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite sulla sua vita, c’informa anche della sua produzione.

Oltre che le "Satire" (che sono, ovviamente, il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una "pretexta" (dal titolo "Vescio", che non comprendiamo); quindi, un libro contenente una narrazione di viaggi ("Hodoeporicon") e un componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di Tràsea Peto (quella stessa Arria che volle morire suicida insieme al marito Cecina Peto).

Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette minori fossero distrutte, forse per constatate imperfezioni di stile dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse rappresaglie per il contenuto antimperialista di quella tragedia e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità di Nerone.

Satire. Trama e considerazioni.

Premessa. Le "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da un proemio di 14 versi "coliambi" (variazioni del trimetro giambico: nell’autorevole codice di Montpellier, del X sec., questo breve testo precede la satira I come introduzione a tutta la raccolta; nelle edizioni moderne, viene posto all’inizio oppure alla fine della raccolta). Molto probabilmente il poeta aveva un ben più vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le "Satire" per l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti, entrambi i revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio il periodo in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro erano ormai apertamente ostili). Non solo: alcuni versi della fine del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché l'opera non apparisse incompiuta.

Contenuto. E’ da premettere che è molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera: il modo di procedere di P. è quanto di più asistematico si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro risultano, infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della logica. Si aggiungono, a questo, altri problemi di interpretazione del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia, per quanto ci è possibile, procediamo con ordine.

- I "coliambi" (14 vv) hanno un vero e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è quello di educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo, volte esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della sua poesia e della sua ispirazione.

- La I satira (134 vv), strutturata in forma di dialogo tra l’autore e un immaginario interlocutore, è di argomento letterario: illustra i vizi deplorevoli della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna, cui il poeta – programmaticamente sulla scia di Lucilio e, soprattutto, di Orazio - oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad uomini liberi: P. si augura di avere anche pochi lettori, ma che certo sapranno intendere i suoi versi.

- La II (75 vv), inviata all’amico Plozio Macrino in occasione del suo compleanno, attacca la religiosità formale ed ipocrita, affermando di contro che agli dèi bisogna rivolgersi con fede onesta e sincera.

- La III satira (118 vv) biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi piuttosto alla morale stoica.

- La IV (52 vv) illustra la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum", soprattutto per chi ambisca alla carriera politica (il poeta immagina che questa accusa, o rimprovero, venga rivolta ad Alcibiade da Socrate), e bolla chi s’industria a scrutare i difetti altrui senza conoscere i propri.

- La V (191 vv), dedicata a Cornuto (profonda e commossa è la riconoscenza dell’allievo nei confronti del maestro e dell’amico), la più lunga e la più bella, svolge il tema della libertà secondo il saggio stoico, ch’è consapevolezza razionale e dominio delle passioni: di conseguenza, l’unico veramente libero è il sapiente.

- La VI satira (80 vv, incompiuta), infine, rivolta sottoforma di lettera a C. Basso, che si trova in Sabina (mentre l’autore è a godersi la meravigliosa scogliera ligure di Luni), muove da un elogio dell’amico come poeta lirico, e progressivamente giunge a trasformarsi in un componimento soggettivo ed autobiografico: P., mostrandosi grato per l’educazione ricevuta, afferma di avere raggiunto l’equilibrio spirituale e deplora sia la prodigalità inconsulta sia l’avarizia, cui contrappone la "moderazione" ("metriotes") propria degli stoici.

Considerazioni. P., imbevuto – come detto - dell’ambiente stoico e lontano dalle esperienze della vita, parla col tono del moralista intransigente, ma astratto; così, gli uomini diventano pretesto per una denuncia e per un esame "scientifico" (esemplato sui manuali morali del tempo) e "fenomenologico" del vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un lessico, come dire, "corporale"), col risultato di mettere a fuoco, anziché l’uomo, il suo comportamento tipizzato (i "mores"): la sua poesia è dunque anzitutto ispirata da una forte esigenza etica; ma un’etica distruttiva, o solo marginalmente costruttiva (sono poche, cioè, le indicazioni del "recte vivere").

Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che altro come "antimodello", nel senso che in P. il rapporto "maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in una reciproca "incomprensione", che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un "barocchismo" macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il monologo della confessione. E, invero, la passione sincera spesso riscatta la sua arte.

Stile. L’esigenza realistica è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della tecnica della "iunctura acris" (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico) e quindi si "deforma", condizione necessaria ad esprimere verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque, più che altro, una scelta estetica. Come dire che tale oscurità non è il risultato di una tecnica imperfetta, bensì una voluta difficoltà, che il poeta offre ai suoi lettori perché meditino attentamente sul suo messaggio.

Ovviamente, per quanto detto, destinatario dell’opera non può essere l’uomo (per dir così) comune, ma sarà un pubblico costituito da gente colta, istruita e anch’essa dotata della stessa profonda sensibilità del poeta.

Fortuna. Fatto sta, comunque, che le "Satire" di P. riscossero un enorme successo tra i contemporanei, specialmente presso Lucano. Il nostro autore fu molto letto e citato anche nei secoli successivi, studiato dai grammatici per la peculiarità della lingua e dello stile, e apprezzato dagli autori cristiani per il carattere spiccatamente moralistico della sua produzione. La sua fortuna, fiorente lungo tutto il medioevo, declinò tuttavia in età rinascimentale, oscurata da quella di Orazio satirico, moralista meno intransigente e scrittore meno duro e oscuro.


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